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giovedì 24 luglio 2014

Il senso riflessivo dell’arte moderna


Ho trascorso con la mia famiglia a Parigi cinque giorni di relax, arte e cultura. Per me la capitale francese resta una della città più belle al mondo. Non essendo un travel o fashion blogger non vi annoierò con il lungo dettaglio di cosa ho visitato e nemmeno con le ultime avanguardie modaiole parigine. Mi preme invece soffermarmi su un concetto, credo ai più noto, che riguarda l’arte moderna come strumento per scuotere le coscienze. Due le opere che mi hanno colpito, una è Outgrowth di Thomas Hirschhorn, al Centre Pompidou, l’altra è Le Chemin de Damastès di Jean Michel Bruyère, che ho visto all’esposizione Art Robotique, presso la Citè des sciences et de l’industrie.


Outgrowth, termine dai molti significati (escrescenza, cancro, pustola, tutti affatto piacevoli), occupa un’intera parete di uno dei corridoi del Pompidou: è composta una serie di ripiani sui quali poggiano un gran numero di mappamondi dai quali fuoriesce un’escrescenza, costruita banalmente con della carta ricoperta da nastro marrone per imballi. Al di sotto di ogni globo vi è una foto di un evento terribile con la sua data, avvenuto sulla Terra in corrispondenza di quel grosso punto marrone. L’artista ha voluto rappresentare, in modo semplice ma efficacissimo, le ferite del nostro pianeta causate da guerre o disastri nel XX secolo. Ogni singolo avvenimento per lui è una piaga, che si espande in tre dimensioni, a formare un ricordo indelebile intorno al posto geografico dell’avvenimento. L’ultimo ripiano in basso è più corto degli altri, a significare l’ineluttabilità di ciò che verrà. 


Invece, il visitatore che guarda l’installazione di Bruyère resta quantomeno interdetto: una lunga serie di lettini da ospedale, ognuno con proprio cuscino e coperta, illuminato da un neon, allineati in uno spazio asettico tra il bianco e l’argento. I lettini sono del tipo sollevabile elettricamente: ad intervalli di qualche minuto si ode un segnale di allarme monotonale e i lettini si alzano e si abbassano lentamente, quasi a formare un’onda. E’ il respiro degli ammalati, ma socialmente anche dei derelitti, che manifestano il loro lamento, la loro fame di giustizia: si fanno notare solo in quell’attimo di movimento, poi tornano ad essere come trasparenti. Un’opera inquietante, al limite dell’incubo. 

Quando sono stato per un’intera mattinata al Louvre ho riprovato una grande emozione, dopo 35 anni, nel rivedere e lasciarmi rapire dalla forza della Nike di Samotracia e dal fascino magnetico della Gioconda di Leonardo. Ça va sans dire. Però, se devo essere sincero pur rischiando di passare per eretico, la suggestione profonda e il turbamento lasciatomi dalle due opere suddette è stato maggiore. Il senso e la funzione dell’arte moderna, a mio modesto parere, sono anche questi: discutere, far riverberare, lasciare un intimo segno nell’animo dell’uomo, risvegliarlo dal torpore del benessere e sbattergli in faccia certe realtà troppo spesso trascurate (qui , ad esempio, avevo scritto di tale senso sociale circa altre tematiche). L’opera d’arte moderna è così, fatta di materiali semplici ma di pensieri forieri di riflessione e di cambiamento. Di recente qualcuno va ripetendo la frase di Dostoevskij “la bellezza salverà il mondo”: sono d’accordo, ma non solo la bellezza. Perché senza il dissentire, il contaminare lo stato delle cose, senza il denunciare pure con forme di comunicazione universali come l’arte, il mondo lo salveremo solo a metà. Forse anche meno.

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