Powered By Blogger

lunedì 22 ottobre 2018

Ascoltare senza sentire



Una volta c’erano solo i cinque sensi. Poi arrivò il sesto e il mondo cambiò… Ops, questo non è un romanzo, è solo il mio blog. Deve esserci stata un’interferenza. Che cosa sono i sensi? Possiamo definirli gli input del nostro organismo? Direi di sì, anche se non sono gli unici. (Ecco, questo è il blog, ci siamo). Tecnicamente qualcuno potrebbe chiamarle interfacce, tra la nostra mente e il mondo esterno. Argomento affascinante, senza dubbio. Lo è anche per grosse aziende mondiali che stanno cercando di sviluppare nuove tipologie di tali interfacce. Due i personaggi in ballo sul tema: Elon Musk (che conoscerete grazie alle auto elettriche Tesla o ai vettori spaziali di Space X) e Mark Zuckerberg (la parola Facebook vi dice qualcosa?).

All’inizio del 2017 si è appreso che Facebook (l’azienda, non il social) aveva creato un gruppo di lavoro, denominato Building 8, per lavorare su progetti al limite tra realtà e fantascienza. Il primo, più di là che di qua, si avvarrebbe di una speciale chirurgia cerebrale per impiantare un piccolo computer nel cranio e trasformare i pensieri in testo. E qui ce ne sarebbe da scrivere, da molti punti di vista. L’altro, più reale e realistico, riguarda una particolare fascia da polso per "sentire" attraverso la pelle, trasformando le parole in vibrazioni comprensibili. Il dispositivo potrebbe convertire ciò che viene ascoltato, come un dialogo nei pressi di chi lo indossa oppure il parlato che viene fuori da un altoparlante, in qualcosa che si avverte sotto forma di vibrazione.

Un simile oggetto potrebbe avere moltissimi usi, come ad esempio fornire un modo alternativo ai non udenti di partecipare ad una conversazione, o anche permettere a qualcuno di "ascoltare" cose che altrimenti non potrebbe ascoltare, per legge o per altri motivi. Pensate allo spionaggio? Non vi sbagliate. Ancora, aumentare le possibilità di svolgere più attività contemporaneamente: lavorare al computer ed ascoltare un messaggio vocale attraverso le vibrazioni, senza infastidire il collega accanto. Insomma, una sorta di traduttore (o di trasduttore, per i pochi specialisti che mi leggono), con il quale evitare la lingua dei segni o altri alfabeti simbolici simili, e comprendere il discorso di un qualsivoglia interlocutore. Semplicemente con l’ausilio di questo speciale braccialetto.

Agli scienziati di Facebook si sono aggiunti medici della Stanford University. All’interno della pubblicazione, uscita settimane fa su una rivista specialistica della IEEE (Institute of Electrical and Electronics Engineers), gli autori dello studio descrivono dettagliatamente i test eseguiti su diversi partecipanti. I soggetti tentano di decifrare quali parole la fascia da polso sta comunicando attraverso dei modelli vibranti, basati su suoni predefiniti che in linguistica si chiamano fonemi. Difatti, quando parliamo, i suoni che produciamo possono essere suddivisi in piccoli insiemi, di cui ogni elemento è rappresentato da un fonema. Ciascuna parola ha quindi un proprio “modello vibratorio” unico. La fascia contiene numerosi minuscoli sensori, i quali si attivano con diverse frequenze. Ciò offre agli utenti moltissime combinazioni potenziali, dunque un vocabolario ampio, con il quale gli elettrodi che si muovono per generare la vibrazione creano le parole che arrivano al cervello, tramite il sistema nervoso.

Quattro anni fa c’era stato uno studio simile, nel quale si riusciva a riconoscere il parlato mediante analisi video di piante o oggetti che vibravano nelle vicinanze della sorgente sonora. Qui il video. Un’applicazione davvero interessante. Ora, però, la fascia da polso sviluppata dai cervelloni di “Faccialibro” ha qualcosa in più. Al di là dei possibili impatti positivi per chi ha gravi problemi di udito, è un primo passo per arrivare, chissà quando, all’integrazione piena tra tecnologia e individuo, ad una vera e propria ibridazione tra l’uomo e le macchine. Un giorno sarà il caso di rivisitare il concetto di senso propriamente umano? Può darsi. Dieci anni fa non avremmo mai pensato di passare delle ore, ogni giorno, con i polpastrelli su un freddo schermo. E’ come se mano e smartphone siano entrati in simbiosi. In futuro sentiremo anche senza usare le orecchie? Probabile. L’importante, in ogni caso, sarà continuare ad ascoltare. Tutti.





martedì 9 ottobre 2018

Siamo i nostri ricordi, veri o falsi


Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo? Tranquilli, non vi risponderò né io né nessun altro. Però come inizio è affascinante, no? Anche perché si tratta di dubbi che l’uomo razionale si è sempre posto: volete che non me li ponga io senza coinvolgervi? Scherzi a parte, l’argomento quotidiano verte sulla prima delle tre domande, e credo che in qualche modo vi stupirà. Si basa su considerazioni fatte dalla professoressa di psicologia Giuliana Mazzoni, ricercatrice all’università di Hull, in Inghilterra.

Qual è la nostra vera identità? Molti la stanno ancora cercando, direte. Non vi biasimo. Esiste però una certezza: si basa moltissimo sui ricordi, sulle esperienze, su come gli eventi della vita a cui abbiamo partecipato, volenti o nolenti, l’hanno modellata. I ricordi, dunque. Spesso belli, a volte tristi, peggio se traumatizzanti. Alcune ricerche però mostrano che spesso l'identità non è una rappresentazione veritiera di chi siamo, anche se la memoria va liscia come l’olio. Pare infatti che non sempre usiamo tutti i ricordi disponibili nel disco rigido dietro gli occhi. Molto spesso tendiamo inconsapevolmente a scegliere cosa ricordare.

Proviamo a spiegare. Quando raccontiamo agli altri un nostro vissuto, facciamo affidamento su un meccanismo di screening psicologico, che monitora e contrassegna certi ricordi come accettati, scartandone altri. Episodi che ci portiamo “dentro” pieni di dettagli e di emozioni, specie quelli che potremmo o vorremmo riprovare (quindi più belli), hanno maggiori probabilità di essere catalogati come veri ricordi. Successivamente, a velocità a noi inconcepibili, il sistema neurale effettua una sorta di test di plausibilità, con un altro meccanismo di monitoraggio, per avallare quegli eventi dei ricordi all’interno della storia personale generale. Ciò vuol dire che la memoria personale deve combinarsi con l'idea corrente che abbiamo di noi stessi. Non sarebbe credibile un tipo che è stato sempre ritenuto una brava persona, se raccontasse di essersi comportato di colpo in modo aggressivo verso gli altri; il vero punto è che non sarebbe credibile nemmeno per sé stesso (trascurate per un attimo i raptus, naturalmente).

Selezioniamo i nostri ricordi, quindi. Ma fosse solo questo. Ricordare è un processo altamente ricostruttivo che dipende dalla conoscenza, da come ci si vede, dagli obiettivi che ci si pone nella narrazione o nell’introspezione. Da alcuni studi di imaging cerebrale è stato ricavato che la memoria personale è diffusa in più parti dell’encefalo, basandosi su una vera e propria rete di memoria autobiografica. Cosa significa? Che molte parti del cervello sono coinvolte nella creazione di ricordi personali. Perciò, in questo bailamme di informazioni, si tende a perdere una parte della veridicità delle stesse. Non per malfunzionamenti non voluti, proprio per come è progettato il “sistema”. Morale della favola: anche quando ci affidiamo giustamente ai nostri ricordi, questi possono essere estremamente inaccurati o addirittura falsi. Spesso creiamo una memoria di eventi che non sono mai accaduti.

Tendiamo quindi ad automanipolare la nostra memoria. Fa parte della nostra natura. La plasticità del cervello, conscia o inconscia, ci consente questa operazione. Come genere umano, non facciamo una bellissima figura, eh? In passato la ricerca si era già concentrata su questo aspetto negativo. Per dirne una, con tutto il rispetto per le donne, si può arrivare a crearsi falsi ricordi di abusi sessuali, portando a false accuse. Oppure, chi soffre di problemi mentali può tendere a concentrarsi solo su eventi negativi e a ricordarli in modo peggiore di come sono accaduti davvero. Soluzione? Farsi aiutare dagli altri a recuperare il sé. Possibile, sempre che anche loro non abbiano ricordi modificati su di noi …

Poi ci sono gli scienziati che pensano sia normale un comportamento neurale di questo tipo. In altre parole, affermano che scegliere tra i ricordi, prelevarne solo alcuni dai cassetti della memoria è cosa buona e giusta. Siamo in fondo animali che tendono a preservarsi, perciò ci capita di fare delle correzioni in corsa, per riformulare e valorizzare il nostro passato in modo che assomigli a ciò che sentiamo e crediamo nel presente. Sono allora necessari dei ricordi imprecisi e smussati, derivanti dalla necessità di mantenere un senso di sé positivo e più attuale. Mi viene da pensare che gli studiosi che affermano ciò siano ottimisti, ma è solo una mia riflessione, beninteso.

Riepilogando, la nostra identità è davvero unica, o è soggetta ad autointerpretazioni, più o meno volute? Siamo ciò che costruiamo di noi, attraverso ricordi veri o falsi. Avete sempre considerato voi stessi modellati in base alla somma delle vostre esperienze. Ora sapete che, probabilmente, quelle esperienze le avete condizionate con ricordi poco reali. Alcuni, forse, nel mentire spudoratamente e consapevolmente, si costruiscono e ri-costruiscono ad arte. Altri lo fanno solo perché guidati da una mente umana normale. No, non è fantascienza. E’ la bellezza di una normalità imperfetta.