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lunedì 26 novembre 2018

Le alghe per ridurre i gas serra di origine animale


Alimentazione e salute sono strettamente correlate. Un esempio classico è quello della carne rossa: diverse ricerche scientifiche affermano che aumenti la probabilità di ammalarsi seriamente. Queste sono implicazioni dirette. Ve ne sono poi di indirette, ma non certo meno gravi. Sto parlando della sostenibilità e dei cambiamenti climatici. Che c’azzecca, dirà qualcuno di voi, come quell’amico molisano che non si sente più. E’ presto detto. Gli animali macellati che finiscono sulle nostre tavole, durante la loro “onorata” esistenza, inquinano più di quello che credete.

Ogni anno, l’allevamento di bestiame produce gas serra in modo equivalente all’effetto di circa 7 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, praticamente come l'industria dei trasporti. Se il 60% dipende dall’indotto umano, il restante 40% viene prodotto durante la digestione: bovini ed ovini ruttano e producono metano. Ciò dipende dal processo digestivo di alcuni ruminanti, noto come fermentazione enterica. I ricercatori hanno esplorato una serie di potenziali alternative per ridurre tali emissioni gassose, tra cui la selezione selettiva, i vaccini, i trasferimenti di microbiomi, vari integratori alimentari e mangimi più efficienti, tutti con risultati poco significativi.

Ora pare che le alghe possano dare un contributo importante affinchè mucche ed affini riducano la loro impronta di carbonio. Sono infatti positivi al riguardo i risultati ottenuti da uno studio alla Università della California di Davis, guidato dal professor Kebreab. La scorsa primavera, molte  vacche da latte di tipo Holstein (comunemente quelle bianche a macchie nere) sono state coinvolte in uno esperimento. Aggiungendo una piccola quantità di alga rossa al mangime, i ricercatori hanno scoperto che potevano ridurre la produzione di metano delle mucche di quasi il 60%. In proporzione, una simile riduzione applicata a tutto il settore dell'allevamento mondiale cancellerebbe quasi 2 miliardi di tonnellate di emissioni annue. Ma Kebreab sta preparando uno studio più ambizioso nei prossimi mesi, valutando se piccole quantità di una forma diverse di alghe possono alzare la suddetta percentuale.

Nel frattempo, alcune aziende hanno iniziato a studiare la fase successiva e più complessa: passare ad un’economia di scala con la stessa efficienza. L’input al lavoro sulle alghe è stato suggerito anche dall'approvazione in California di una legge del 2016, che chiedeva di ridurre le emissioni di metano dello stato del 40%. Ciò ha posto una reale pressione sulle imprese per trovare modi efficaci ed economici di farlo, in particolare tra aziende di allevamento e produttori di latte. In realtà la legge verteva sulle emissioni provenienti dal letame, ma si è rivelata oculata e funzionante anche per altri motivi, così da portare ottimi feedback, locali e globali.

Un effetto collaterale nello studio dell’università di Davis è che il bestiame inizialmente mangia con meno voracità. Ciò è stato attribuito al gusto salato dell’alga, subito mitigato con dell’aggiunta di melassa. Per i produttori di latte e carne infatti la nuova dieta non deve assolutamente modificare i quantitativi precedente. A breve, il professor Kebreab supervisionerà un esperimento della durata di sei mesi con 24 bovini, sia per valutare che l'effetto dirompente sul metano persista nel tempo, sia per capire come l'integratore influisce sulla qualità della carne. In teoria le alghe dovrebbero aiutare ad ingrassare gli animali, perché i carboidrati che chimicamente non vengono utilizzati per formare metano costruiscono un maggior tessuto muscolare.

Nell’immediato futuro ci sono dunque diverse valutazioni da compiere. Una sarà quella di capire se l’investimento prevede un buon ritorno economico, rispetto al costoso approvvigionamento della speciale alga utilizzata. L’altro è come realmente ottenere i grandi quantitativi di queste alghe, sia per il completamento dello studio che per far passare questo prodotto su scala commerciale. E, non ultimo, ci sarà da analizzare la catena alimentare completa: la carne da questo bestiame meno inquinante ma alimentato in modo non tradizionale non dovrà essere dannosa per i consumatori finali. Nell’attesa, questi ultimi potranno continuare a tutelare, sé stessi e l’ambiente, con i mezzi attuali: mangiare carne con moderazione.


(fonte https://www.technologyreview.com/s/612452/how-seaweed-could-shrink-livestocks-global-carbon-hoofprint; nella foto, un bovino in un prato di Pila - AO)

mercoledì 7 novembre 2018

Perché certe tecnologie non hanno (ancora) successo



Una volta mi è capitato di leggere che se le auto avessero avuto lo stesso sviluppo dei computer, a quest’ora avremmo macchine volanti, velocità supersoniche, traffico decongestionato. Difatti, non si può certo paragonare la crescita più che iperbolica dei calcolatori elettronici con quella dei nostri mezzi di trasporto su strada. C’è una sostanziale differenza però. Al di là della connessione ad internet, i computer sono destinati a stare confinati in uno spazio ben preciso, fossero anche le nostre tasche; le auto invece viaggiano con loro simili e si confrontano con problematiche assai più complesse, non solo tecnologiche. Spieghiamoci meglio.

In cosa differiscono due idee innovative che devono confrontarsi con la realtà, ossia su come la loro applicazione le porterà al successo e alla completa diffusione? Molto spesso è l’esperienza la parola chiave. L’esperienza dice che se un’idea è teoricamente grandiosa, ma nessuno ha pensato a come svilupparla, oppure è stata solo prototipata, o ancora è poco appetibile per i consumatori, il suo successo, se ci sarà, è molto molto lontano. Se poi tende anche a scontrarsi con grandi problemi di natura economica e sociale, il buio su quell’idea è pressoché totale. Discorriamo di ciò perché negli ultimi anni, grazie a magnati di varie parti del mondo, o ad aziende visionarie, si sente parlare di tecnologie futuristiche e futuribili che, se da un lato ci fanno guardare con ottimismo al domani, dall’altro sembrano farsi attendere con impazienza. Ma, come dicevamo, lo sviluppo di queste tecnologie non è pensabile senza considerare il contesto, locale e globale.

Pensate per un momento alle automobili elettriche. Va bene, se ne vedono ancora poche in giro, specie se non viviamo in grandi città. Ma qual è effettivamente la leva che può favorire il loro proliferare? Il fatto che si tratti di un mezzo trasporto non nuovo, diverso solo nel tipo di propulsione. Voglio dire, esiste già da più di un secolo sia il mondo specifico del mezzo a quattro ruote, sia la infrastruttura dove farla muovere. Ne hanno anche piena consapevolezza gli individui che la usano e con cui si confrontano. Ok, ci sono delle cose da migliorare: renderle economicamente più competitive, aumentare l’autonomia, disseminare le strade di punti di ricarica, chiedere incentivi al governo, tutto giusto. Però, basandosi su un oggetto più che collaudato, non ci si aspettano grossi ostacoli per il successo delle auto elettriche.

Saltando di palo in frasca, si può parlare della fusione nucleare, considerata da moltissimo tempo la fonte di energia del futuro. Il reattore a fusione termonucleare è un esempio di un’idea vecchia nella definizione ma di poco più vicina alla realizzazione rispetto a quando è stata concepita. Si basa, per farla breve, sulle reazioni che avvengono all’interno del sole. Per la sua applicazione è necessario che si risolvano grandi problemi tecnologici, con costi di ricerca molto elevati, dovuti perlopiù alle altissime temperature in gioco e alle modalità per controllarle. Gli studi in corso hanno permesso di conseguire alcuni importanti risultati sperimentali, che fanno ritenere probabile una attesa ancora di qualche decennio per giungere alla realizzazione di un prototipo di centrale nucleare a fusione. Dunque, per questa tecnologia che funziona sulla carta, non abbiamo ancora un prototipo. Come facciamo a dire quando sarà pronta per alimentare il mondo?

Tempo fa avevamo scritto del progetto Hyperloop, la cui realizzazione sembrava imminente negli Emirati Arabi: 160 km in soli 12 minuti. Tutto molto bello e affascinante, senza dubbio. Ma si tratta di un'altra tecnologia più difficile di quello che appare. Secondo la fisica, teorica e pratica, costruire un tubo molto lungo a pressione quasi zero, attraverso il quale si possano accelerare capsule piene di persone, risulta fattibile. Da qui a realizzare il sistema però ce ne passa: il tubo deve essere a tenuta stagna per centinaia di chilometri, resistendo ad eventuali sismi, le capsule sigillate per i passeggeri necessitano di un sistema di supporto vitale interamente autonomo. Per non parlare di quali dovranno essere le procedure di emergenza nel caso si blocchi la capsula o di qualsivoglia guasti. E infine, least but not last, ci vorrà un po’ di coraggio per le persone nell’intraprendere viaggi in siffatte condizioni.

Ritornando all’esempio con cui avevo iniziato, oggi si riparla davvero di macchine volanti. Forse un po’ spinte dall’impulso pseudo-aeronautico dovuto alla diffusione dei droni, ogni tanto leggiamo o vediamo prototipi di involucri contenenti uno o due persone, che si librano in volo sorrette da 4 grandi eliche. Il tutto naturalmente alimentato con batterie. Ma siamo ancora in fase meno che embrionale. In questo caso ciò che complica la sfida è l’ibridazione di due oggetti: l’auto tradizionale e un mezzo volante. Entrambi coesisteranno difficilmente sullo stesso veicolo, poiché se si va a quattro ruote i pro e i contro sono completamente diversi da quelli di piccoli aeromobili, o di elicotteri. Forme, materiali, aerodinamica, propulsione, pesi, sicurezza, sono tutte tematiche che distinguono in modo importante gli uni dagli altri. Magari i nostri nipoti si muoveranno con dei grossi droni e non più in automobile? Probabile, anche se gli spostamenti non potranno essere su strada e per aria con il medesimo mezzo.

Per concludere, ogni idea innovativa è un seme importante e va innaffiato a dovere. Va tenuta cura però anche del terreno in cui lo si pianta. Se non lo si sceglie bene, valutando concimi, stagioni, biochimica del suolo, difficilmente vedrà la luce. Occhio dunque ai grandi propositi conditi con marketing e squilli di tromba. La realtà spesso è diversa, visto quanto descritto. Non sono divenuto di colpo un detrattore delle avanguardie tecnologiche. Mi piace pensare alle reali utilità della tecnologia, quella con i piedi per terra, specie se migliora la qualità delle vita.