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lunedì 25 maggio 2015

Gli ex senzatetto dello smart Utah


I problemi più difficili hanno una difficoltà intrinseca, anche di impatto iniziale, da far pensare a contorsioni mentali e gestionali per risolverli.  A volte, però, un’attenta analisi del problema comporta una soluzione più semplice del previsto. Se ci è successo, avremo detto sicuramente “era così facile, averlo pensato prima !”. Qualcosa di simile sarà capitato agli amministratori dello stato dello Utah, quando hanno compreso che per ridurre drasticamente il numero di senzatetto bastava dar loro una casa. La risposta più banale in questo caso ha funzionato, eccome.

I senzatetto, da molti visti come scansafatiche o irresponsabili, sono (parere mio personale) soltanto degli esclusi. Certo, in taluni casi non saranno stati stinchi di santo, avranno vissuto vite non irreprensibili, ma non per questo non è giusto dar loro una seconda possibilità. Vanno bene le iniziative di quegli “angeli notturni” che cercano di ristorarli, fisicamente con coperte e pasti caldi, moralmente con un po’ di compagnia ed un sorriso. Ma nello Utah, dopo calcoli neanche difficili, hanno capito che, oltre al recupero umano di questi poveri diavoli, c’era anche un risparmio economico dietro l’angolo. (Parentesi: se dobbiamo pensare che l’hanno fatto solo per soldi, pensiamolo pure, ma per stavolta è il risultato che conta).

Sin dal 2001 hanno affrontato il problema sociale di chi non ha una fissa dimora. Lo spunto è venuto da uno studio dell’Università della Pennsylvania, secondo il quale i senzatetto perdono le minime opportunità offertegli proprio perché non hanno alloggio. Monitorando  4000 persone a New York per quattro anni, due anni vissute per strada e due in alloggi forniti dal Comune, lo studio aveva sottolineato una differenza significativa di spesa, ossia i costi per i servizi di accoglienza, carcere e/o ospedale erano superiori a quelli per fornire un alloggio stabile, un'assistenza sanitaria e un’opportunità d'impiego. Grazie a quello studio e ad una buona lungimiranza, negli ultimi 10 anni lo Utah ha ridotto di un sorprendente 91% il numero di senzatetto, riuscendo a conservare anche 8000 dollari all'anno per persona. Ne sono rimasti così pochi che lo stato ne conosce nomi e storie.

Il programma è stato chiamato Housing First, proprio perché era diventata evidente la funzione della casa per ridare dignità a queste persone. Successivamente ad essi è stata offerta una possibilità lavorativa, ma sta a loro decidere se accettare o meno: la maggior parte è ben lieta di darsi da fare. In più, chi ne ha bisogno può usufruire di una consulenza per essere aiutato a superare i suoi ostacoli psichici: ora che non devono preoccuparsi di dove passare notte, un trattamento con uno “strizzacervelli” ha una maggiore possibilità di funzionare. Se da un lato è facile calcolare il denaro risparmiato, dall’altro si evince l’efficacia di questa politica per salvare molte vite.

Nel paradigma delle smart cities, oltre l’imperante proposta tecnologica, si nota qualcuno che dà voce ai bisogni dei cittadini, quelli primari, che comunque concorrono a creare una città che funziona veramente. Una città che non dimentica nessuno dei propri figli. Molto apprezzabile quindi la smartness, in tal senso, implementata nello Utah. Le pianificazioni sociali delle grandi metropoli e, a seguire, di tutte le altre città, dovrebbero prevedere aiuti di questo genere, spremersi per trovare i finanziamenti necessari a generare programmi di housing sociale, che aiutino sia i senzatetto che quelli sulla soglia della povertà. Se la smart city è il modello a cui ambire per il futuro urbano, senza queste politiche resterà un modello solo sulla carta.




lunedì 11 maggio 2015

Una fibra indistruttibile dai ragni al grafene


All’incirca 53 anni fa Stan Lee, il principale creatore dei supereroi della Marvel, ideò il personaggio dell’Uomo Ragno, un giornalista di nome Peter Parker che aveva acquisito i suoi poteri, compresa la capacità di generare ragnatele molto resistenti, dopo esser stato morso da un aracnide radioattivo. La fantasia di un uomo volante che protegge l’umanità dal male, di per sé poco originale, si basava su un fatto reale, ossia la grande forza e resistenza del filamento di cui è composta la tela dei ragni. Di recente questa attitudine naturale del mondo animale è stata oggetto di intervento migliorativo da parte dell’uomo.

All'Università degli Studi di Trento hanno trovato un modo per incorporare nanotubi di carbonio e grafene nei fili di seta del ragno aumentandone resistenza e durezza fino a livelli mai ottenuti prima. Il team, guidato dal professor Lepore, dopo aver raccolto 15 ragni della specie Pholcidae, ha recuperato dei campioni di seta prodotta da questi ragni, da usare come riferimento.  Successivamente sono stati spruzzati con acqua contenente nanotubi di carbonio e particelle di grafene, attendendo che i ragni rigenerassero i loro filamenti, al fine di misurarne le proprietà meccaniche e confrontarle con i campioni precedenti. Gli strumenti usati prevedevano altissime risoluzioni, sia per la rilevazione delle forze in gioco che per i relativi allungamenti di ogni singolo filo.

Ora, le fibre proteiche della seta di ragno rappresentano in natura uno straordinario prodotto, più di ogni altra fibra compatibile generata dall’intelligenza umana. Per dirne una, come resistenza alla trazione è paragonabile all’acciaio, pur avendo una densità di gran lunga inferiore. Possiede inoltre duttilità ed elasticità confrontabili con le fibre di carbonio come il Kevlar. Ma gli scienziati trentini hanno realizzato qualcosa di superiore, misurando valori del modulo di elasticità e del modulo di durezza maggiori di qualsiasi altra fibra conosciuta, come quelli delle fibre sintetiche polimeriche ad alte prestazioni e delle più recenti fibre cosiddette annodate, costituite di solo grafene. In altri termini, la particolare “miscela” bevuta dai ragni o in qualche modo da loro assorbita, li ha portati a creare una fibra con caratteristiche mai rilevate fin’ora.

I risultati sorprendenti non hanno ancora una spiegazione chimico-biologica. Agli studiosi non è chiaro il meccanismo col quale nanotubi di carbonio e grafene si intrecciano con la seta naturale. Pur avendo confermato la presenza dei materiali aggiunti mediante metodi spettroscopici, essi hanno solo fatto un’ipotesi secondo cui l’ingestione delle particelle esterne crea all’interno dei ragni la nuova fibra all’atto della tessitura. Allo stato attuale però non esiste un modo efficace per raccogliere i filamenti creati, anche se c’è già chi sta pensando a sviluppare tecniche che si basino su questa “invenzione” per farlo diventare un prodotto industriale, ad esempio per creare tessuti particolarmente resistenti.

Il lavoro di Lepore e colleghi è strabiliante: i filamenti tessuti dal ragno provengono da un’evoluzione di 400 milioni di anni, mentre loro li hanno migliorati in poche settimane. In più la semplicità della tecnica fa affermare al team di scienziati che un approccio simile potrebbe essere utilizzato su altri organismi, allo scopo di creare dei nuovi materiali bionici. Nel frattempo, a noi non è dato di sapere quale fine abbiano fatto i ragni sottoposti a questo originalissimo esperimento: hanno continuato a vivere normalmente ? il filo di seta modificato è tornato naturale dopo l’esaurimento del grafene ingerito ? e ancora, ci potranno essere variazioni alla genetica di questi animali ? Sarà presto per rispondere a queste domande, ma certamente è necessario porle sin da subito.


PS: ringrazio mio figlio per i dettagli su Lee, Marvel e dintorni.

 


mercoledì 6 maggio 2015

Il recupero sostenibile del fosforo


Quando si parla di fosforo il pensiero va immediatamente alla memoria. Molti sono quelli che, per problemi legati alla sbadataggine, si sono sentiti dire “forse hai bisogno di fosforo, dovresti mangiare più pesce”. Il fosforo non esiste in natura allo stato elementare ma deriva dai suoi minerali fosfatici: oltre che nei pesci è contenuto in molte sorgenti proteiche, tipo le uova e la carne. E’ un elemento essenziale per lo sviluppo delle ossa e dei denti, ma utile anche come fertilizzante in agricoltura. Tra l’altro noi umani tendiamo ad espellerlo attraverso la nostra urina, perciò si trova in molte acque di scarico, all’interno dei conseguenti impianti di trattamento. Citiamo inoltre due ulteriori riferimenti a questo elemento chimico, uno di “preistoria” informatica (i monitor ai fosfori verdi), l’altro, più triste, che riguarda le armi al fosforo bianco.

Sembra però che la domanda di fosforo stia crescendo rapidamente. Non è una novità in assoluto, dato che l’incremento demografico globale risente di problematiche come queste per molte materie prime. Così al Centro per la Sicurezza Ambientale della Arizona State University hanno realizzato un modello matematico per il recupero del fosforo dalle acque di scarico, basato sui due attuali metodi per estrarlo, quello chimico e quello biologico. Nel primo caso si realizza una soluzione apposita, nel secondo l’introduzione di alcuni batteri permette la raccolta del fosforo da speciali fanghi. Però nessuna delle due tecniche è sempre la migliore, dipendendo anche dalla qualità dell’acqua del posto. Allora gli scienziati statunitensi hanno ideato una metodologia che combina entrambe le metodologie.

Lo studio ha dimostrato che un impianto di trattamento tipico potrebbe recuperare circa 490 tonnellate di fosforo ogni anno in forma di struvite, un minerale fosfato (nota: alcuni lo conosceranno come prodotto dei calcoli renali in certi animali) . Così facendo si arriverebbe ad estrarre circa il 90% di fosforo presente nelle acque reflue, circa il doppio dei metodi tradizionali,  con un costo di estrazione inferiore ed un tempo di recupero dell’investimento di soli 3 anni. In più, ne guadagnerebbe la salute delle acque, dato che
l'accumulo di fosforo può causare problemi come fioriture di alghe che, col tempo, riducono l'ossigeno presente e compromettono il delicato equilibrio della vita acquatica.

Come in moltissimi altri casi, anche in questo può (e deve) funzionare l’economia circolare del riciclo. Tutto il prezioso fosforo che usiamo e che scarichiamo si perde nell'ambiente e, banalmente, comporta un paio di svantaggi: il mancato recupero ed il danno per fiumi, mari e quindi tutto l’ecosistema. Si parla di migliaia di tonnellate di fosforo, quantitativi importanti che possono soddisfare, almeno in parte, l’esigenze di quei paesi in grossa difficoltà alimentare e nutritiva. Se poi, come in questo progetto della Arizona State University, in tempi ragionevoli si intravede anche un profitto, ci sono tutti i presupposti per una rapida e conveniente implementazione, economica, sociale e naturale. Affinché la coscienza ambientale diventi vero driver per un futuro sostenibile.


(fonte http://www.eurekalert.org/pub_releases/2015-05/asoa-ama050515.php; si ringrazia il sito http://remediatenow.com  per la gentile concessione della foto)