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giovedì 22 febbraio 2018

Cosa so dell'amore


Sere fa ho guardato in TV con molto piacere un nuovo episodio della serie "Il commissario Montalbano". Si dice spesso che quantità non vuol dire qualità, ma credo che uno share di circa il 50%, come avvenuto per questo e per lo scorso episodio, sia coinciso con una trasmissione di grande qualità, di contenuti di spessore, quelli derivanti dai romanzi di Camilleri, arricchiti naturalmente dalla regia di Alberto Sironi, oltre che dalla bravura degli attori. L'episodio si chiamava "Amore" e, per la cronaca, prendeva spunto da un piccolo racconto contenuto in una raccolta del grande maestro girgentano. Ad un certo punto uno dei protagonisti diceva "Si vede che non era vero amore, se se n'è andata", riferendosi alla compagna che, a prima vista, l'aveva lasciato.

Saltando di palo in frasca, provate ora a pensare a tutto ciò che si scrive sui social network riguardo al più nobile dei sentimenti. Che c'entra, starete dicendo. Era solo per girare intorno ad una questione per niente semplice. Lì, nella vostra home page, timeline e via discorrendo, trovate di tutto e di più, banalità, frasi prese a caso dal web, pensieri anche belli e spontanei, stralci di canzoni: forse è l'argomento di cui si scrive di più, direttamente e indirettamente (a parte la politica di questi giorni). Molte parole sono messe insieme anche in un modo stilistico degno di nota, da vate del passato o da penne del presente, che ci fanno riflettere, sorridere, soffrire o comunque soffermarci su ciò di cui non possiamo fare a meno, in qualunque forma esso sia. L'amore, appunto.

Era dunque un accostamento all'apparenza insensato, quello tra il più bravo scrittore vivente italiano (non lo è per voi? fa niente) e la superficialità dei social media. L'ho fatto perché è tema essenziale per le nostre esistenze, checché ne dicano alcuni soloni che lo rifuggono. Si può avere la maestria di scrittori, poeti, artisti, ma anche la semplicità degli umili e l'ingenuità dei bambini, per averne testimonianza quotidiana. Ognuno prova a raccontarlo, anche non volontariamente, con il filtro della propria anima, con il bagaglio di esperienze vissute, positive o negative. Meglio ancora se lo vive appieno, senza parlarne. Guai però a dire che esiste un qualche teorema al riguardo, un'asserzione che circoscriva l'amore all'interno di uno schema, quantitativo e qualitativo. E' qui, infatti, che mi sovviene il dubbio, quando penso alla frase del succitato personaggio dell'altra sera. L'amore, quindi, ha una durata minima per definirsi tale? deve essere considerato sentimento di serie A solo se i due soggetti coinvolti stanno insieme tutta la vita?

"Si vede che non era vero amore, se se n'è andata". Poiché la nostra storia è finita, significa che non mi amava davvero. L'ha detto un uomo lasciato, in una fiction, ma forse l'avrete sentita da entrambi i sessi, anche nella vita reale. A parziale consolazione di chi, non recuperando una razionale motivazione all'accaduto, accampa alibi poco solidi. Stare insieme per sempre è uguale ad amore vero e profondo. Equazione non soddisfatta per alcun valore dell'incognita, l'incognita della vita, potremmo aggiungere. L'intensità di questo sentimento che ci sconvolge, ci fa trepidare, ci ammalia, togliendo il respiro per uno o più attimi, guastando il sonno per la sua estatica bellezza o per i mille dubbi che ci travolgono, come valanga del cuore; dicevo, questa intensità dell'amore, può durare tutta una vita? Ecco, ho appena detto più sopra che non ci sono regole, e stavo per contraddirmi. Certo che può durare. Ma anche no, risponderanno altri. Però, è la durata o l'intensità a caratterizzare i brividi del calore umano più grande? Come si fa a dire che, solo perché ad un certo punto è finita, l'amore non era amore, smentendo il fuoco sentito?

Ho dato un bel titolo al post. Pochissimi, sono sicuro, ci saranno cascati e avranno cliccato sul link per scoprire le mie personali verità al riguardo. Che non rivelerò. Si sa, su certi argomenti le bucce di banana sono disseminate e ben nascoste, basta un niente e oplà, ci ritroviamo per terra. No, non corro il rischio, non avrò l'ardire di filosofeggiare su un tema così complesso. Perché poi è facile, vi trovate a leggere banalità, e allora ridete di me, oppure scoprite di saperne meno di me, e vi sentite umiliati. Vero? Suvvia, scherzavo. Certamente una risposta alla domanda che ho posto più sopra non ce l'ho. Almeno non una definitiva.
Buona riflessione.


"C'è un giorno che ci siamo perduti
Come smarrire un anello in un prato
E c'era tutto un programma futuro
Che non abbiamo avverato" - I.Fossati



(ringrazio il sito https://weheartit.com per la gentile concessione della foto)

martedì 13 febbraio 2018

Driverless car, problemi umani e non


Di auto a guida autonoma si sente parlare ormai da un po’. In Italia ancora non si vedono, per quanto i governanti stiano provando a legiferare al riguardo. Negli USA gli esperimenti stanno lasciando il posto a piccole realtà, ed ogni tanto accadono crash imprevisti, soprattutto con veicoli tradizionali. In alcuni filmati si osserva la gente in parte entusiasta ed in parte ancora timorosa. Non si può dire comunque che il feeling sia immediato. Fortunatamente ai progettisti di questi nuovi mezzi non manca la visione per capire eventuali inconvenienti che potranno presentarsi. Sia a livello umano che tecnico. 

La chinetosi (o cinetosi) è un piccolo disturbo che riguarda molte persone, a causa del quale non si riesce a leggere mentre ci si trova in un'auto che viaggia. Si tende ad attribuire ad una piccola malformazione congenita del sistema vestibolare (che sovrintende al nostro equilibrio ed è posizionato nell'orecchio interno). Il disturbo si accentua in viaggio perché all'encefalo arrivano segnali discordanti: l'occhio dice che, se leggiamo, siamo fermi, l'orecchio invece si accorge del moto a cui siamo sottoposti. Ne deriva la classica sensazione di nausea che può portare vomito. Se dunque viaggeremo senza guidare, qualcosa dovremo pur fare ma, se soffriamo di chinetosi, non saremo tanto a nostro agio.

Un team di ricerca del dipartimento di ricerca sui Trasporti, all'interno dell'Università del Michigan, ha appena brevettato  un dispositivo che potrebbe servire da contromisura alla chinetosi. L'idea che hanno escogitato è di far apparire una serie di piccole luci nella periferia del campo visivo di un potenziale sofferente, al fine di essere viste indipendentemente da ciò che la persona in questione sta guardando. Tali luci potrebbero essere montate in una cuffia, un cappello o sulla montatura di un paio di occhiali. Saranno controllati da vari sensori di movimento, in modo tale da imitare la velocità, il rollio, il beccheggio e gli altri movimenti di un veicolo. Ad esempio, LED posizionati sul lato di ciascun occhio potrebbero lampeggiare dalla parte anteriore a quella posteriore quando un veicolo sta avanzando e spegnersi quando sta frenando. Oppure, lampeggiare in sequenza verso sinistra/destra se la macchina sta svoltando a sinistra/destra. Per chi indossa un tale dispositivo, l'effetto sarebbe quello di fornire una risposta visiva che corrisponde ai movimenti che l'orecchio interno sta rilevando.

Un’altra tematica su cui i tecnici stanno lavorando è quella del consumo di energia dei veicoli autonomi. Una driverless car (auto senza conducente), con solo telecamere e radar, genera circa 6 GigaByte di dati ogni 30 secondi. Ma il valore sale se vi sono sensori aggiuntivi, come i Lidar. Tutti i dati devono essere combinati, ordinati e trasformati in un'immagine comprensibile per il computer a bordo, che deve ricevere le istruzioni su come muoversi. Ciò richiede un'enorme potenza di calcolo: i prototipi utilizzano circa 2.500 Watt (pensate che a 3.000 Watt scatta il contatore di casa), un valore che allo stato attuale potrà diminuire ma non in modo significativo. Mettere un tale sistema in una macchina con motore a combustione interna non ha senso, perché il consumo di carburante aumenterebbe enormemente e avremmo solo peggiorato l'impatto ambientale; allo stesso modo se pensiamo alle auto elettriche, la loro autonomia sarebbe davvero ridotta.

Senza soffermarsi su dettagli spinti, si può affermare che è partita la corsa verso processori ancora più veloci, più compatti e che dissipano meno energia degli attuali. Lo stanno già facendo giganti del settore, soprattutto la Nvidia, ma pure Intel, Qualcomm e la stessa Tesla che sviluppa internamente i microprocessori per gestire il suo autopilota. L'obiettivo, almeno per Nvidia, è di arrivare a 500 Watt con un massimo di 320 miliardi di operazioni al secondo; sembrano tante ma considerando che, ad ogni istante, l'auto senza conducente deve fare moltissime valutazioni, riconoscimenti, prendere decisioni non banali, potrebbero anche non essere sufficienti. E' insomma una sfida aperta che porterà, come ha affermato il responsabile Nvidia del settore automobilistico, Danny Shapiro, "il supercalcolo dal data center all'automobile".

Avere una visione molte volte aiuta. Comprendere in tempo utile quali potrebbero essere i problemi di un veicolo di trasporto che si preannuncia rivoluzionario è fondamentale. Se intanto però si provasse a migliorare il trasporto locale, se noi prendessimo sempre meno il mezzo privato e di più quello pubblico, e se andassimo di più a piedi che fa pure bene alla salute, sarebbe cosa buona e giusta. Amen.


(fonti http://econ.st/2rYTnoX ; http://bit.ly/2Eldp1L; si ringrazia il sito https://gateway-project.org.uk per la gentile concessione della foto)



martedì 6 febbraio 2018

Il cervello non mente mai


Qual è l’organo del corpo umano più affascinante? Il cervello. E’ chiaramente un mio punto di vista, per voi potrebbe essere un altro. Non si può negare, però, che nella sua complessità ancora del tutto esplorata, si annidano delle prestazioni uniche con risvolti interessanti. Ma il cui uso potrebbe farci preoccupare. No, non parlo di droghe. Sto pensando ad utilizzi che permettono di scoprire pensieri reconditi del singolo individuo, perché sembra che il cervello dica sempre la verità. Partiamo da un esempio ameno. All’apparenza.

I grandi sistemi per la lettura della mente sono molto più vicini a diventare una realtà di quanto si possa immaginare. Un nuovo studio condotto presso il D'Or Institute for Research and Education, a Rio de Janeiro, ha utilizzato una macchina per la risonanza magnetica per leggere le menti dei partecipanti e scoprire quale canzone stavano ascoltando. Nell'esperimento, 6 volontari hanno ascoltato 40 brani di musica classica, rock, pop, jazz e così via. L'impronta neurale di ogni canzone sul cervello dei partecipanti è stata catturata dalla macchina a risonanza, mentre un computer stava imparando a riconoscere i modelli cerebrali provocati da ogni brano musicale. Per fare ciò, il calcolatore ha tenuto conto di parametri musicali come tonalità, dinamica, ritmo e timbro.

Il passo successivo è stato far identificare al computer i brani ascoltati dai partecipanti, in base alla loro attività cerebrale, un procedimento noto come decodifica del cervello. Di fronte a due opzioni, il computer ha mostrato fino all'85% di accuratezza nell'individuare la canzone corretta: una grande prestazione rispetto a studi simili precedenti. Lo scopo di questi "giochetti" è di aprire la strada a nuove ricerche sulla immaginazione uditiva e sul linguaggio neurale. Nel campo clinico, ciò può migliorare le interfacce cervello-computer al fine di stabilire una comunicazione con i pazienti affetti da sindrome locked-in (pseudo-coma). In futuro, gli studi sulla decodifica del cervello e sull'apprendimento automatico creeranno possibilità di comunicazione indipendentemente da qualsiasi tipo di lingua scritta o parlata.

Avevo ragione, l’esempio era ameno fino ad un certo punto. Ma cosa succederebbe se invece il cervello fosse usato per conoscere parole e frasi che una persona si rifiuta di affermare? Lo so, ora vi viene in mente la macchina della verità, presente in molti film ma anche in alcune realtà di un passato non troppo lontano. In quel caso però l'attività encefalica era poco o per niente coinvolta. Ma le tecniche neuro-scientifiche continuano ad avanzare, e comprendono l'uso di scansioni cerebrali per rilevare l'inganno di un individuo, insieme a risposte neurologiche per determinare se qualcuno ha una conoscenza dettagliata di un crimine. Tuttavia le loro applicazioni nella giustizia sollevano preoccupazioni riguardo alla minaccia dei diritti individuali. Di questo parla una recente pubblicazione sulla rivista Frontiers in Neuroscience, mettendo in discussione le implicazioni etiche che derivano dalla possibilità che una persona rilevi involontariamente una propria colpa.

"Dalle neuroscienze si potrebbero trarre informazioni rilevanti sulle capacità di un individuo, ma ci sono anche stati tentativi di impiegare metodi neuro-scientifici per ottenere intuizioni - e per informare giurie e giudici - sull'intenzione delle persone e circa la loro possibile colpevolezza" ha affermato il prof. James Giordano, coautore del lavoro. Deve essere pertanto incoraggiata la discussione sulla necessità di linee guida chiare, che prendano in considerazione sia il potenziale che i limiti della scienza del cervello nei contesti legali. Negli USA infatti le attuali regole delle prove federali forniscono criteri rigorosi, che limitano il modo in cui la scienza del cervello può essere utilizzata, ma ci sono occasioni in cui viene comunque considerato l'uso di prove neurologiche. Il problema è quindi definire un limite mentale e personale, oltre il quale vada sancito il diritto alla privacy, o in alternativa, far firmare all'imputato un consenso informato all'uso di tali prove.

Si tratta di un argomento alquanto spinoso, ma che il rapido avanzare delle neuroscienze costringe ad indagare, approfondendo le relazioni tra scienza del cervello, etica e diritto a livello internazionale. Già tempo fa avevo accennato agli intrecci tra la tecnologia e il diritto, allo scopo di rendere meno soggettivi certi giudizi; nello studio del prof. Giordano si cerca invece di capire fin dove può essere spinta la forza della tecnologia per conoscere la pura verità, entrando in contatto con particolari neurologici troppo intimi, fino a toccare ciò che si definisce coscienza. A furor di popolo si opterebbe per conoscere sempre e comunque la verità, anche prevaricando i diritti degli imputati e dei testimoni. A lume di ragione forse si avrebbe minor certezza.


(fonti https://www.eurekalert.org/pub_releases/2018-02/f-cyb020218.php ; https://www.eurekalert.org/pub_releases/2018-02/difr-isl020118.php; nella foto, un frame dello sceneggiato Rai degli anni '70 "Gamma"  - per restare in tema etica e cervello)