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martedì 26 luglio 2016

La morte, il prezzo da pagare per l'evoluzione



Quando si fa una ricerca sul web, specie se si tratta di una domanda, spesso si trovano riscontri in alcuni forum più o meno affidabili. A volte è sufficiente la spiegazione di Wikipedia, altre volte  abbiamo una domanda particolare per cui non è semplice individuare la giusta risposta. Ho conosciuto il sito americano Quora mentre cercavo un argomento di cui scrivervi. Si tratta di un portale dove potete porre un quesito ed attendere che qualcuno davvero competente vi soddisfi. Insomma una vera e propria condivisione della conoscenza, potremmo dire. Così, un tizio coreano, affranto dalla perdita contemporanea di due cari, ha posto la classica domanda da un milione di dollari: perchè moriamo ? Non è dato di sapere se si trattasse di un quesito meramente filosofico, ma la risposta è venuta da una biologa evoluzionista, la dottoressa Suzanne Sadedin, e personalmente l'ho trovata molto interessante.

La chiave della fine del nostro tempo viene proprio dalla naturale evoluzione della specie umana, nello specifico da una forza, a tratti ancora sconosciuta, secondo cui i nostri geni devono continuare a sopravvivere. E devono farlo nel migliore dei modi. Sembra una contraddizione ma presto capirete che non lo è. Innanzitutto c'è da dire che i diversi meccanismi a cui i geni risultano soggetti sono a dir poco prodigiosi. Al di là delle questioni note di riparazione cellulare, grazie alle quali da alcune malattie riusciamo a guarire, ce ne sono altri che proteggono le cellule dalle loro mutazioni. Se queste aumentano in modo spropositato, viene bloccato il sistema di proliferazione, attivando il ripristino del funzionamento corretto; nel caso questo non sia possibile si costringono quelle cellule a suicidarsi. Ma, come sappiamo, ci sono in casi in cui le mutazioni portano a mali incurabili, e qui anche i geni non ce la fanno a proteggersi. E a proteggere noi che li "conteniamo".

Abbiamo sempre considerato l'evoluzione, sia macroscopica che microscopica, quella dei geni, come un fattore positivo per il regno animale. Lo è senz'altro, ma dobbiamo guardare le singole specie, compresa quella umana, come un veicolo sfruttato dai geni perché coltivino se stessi e cerchino di migliorarsi continuamente. Ovviamente, nei meccanismi genetici non c'è coscienza degli strati più alti, c'è solo la volontà di durare più a lungo possibile, di usare una strategia che gli permetta di proseguire nel loro sviluppo. Tale strategia è tanto più forte e probabilisticamente funzionante se l'essere in cui si trovano è giovane, lo è molto meno se ha diversi anni di età. E' come se i geni avessero un business plan, nel quale il target è molto più raggiungibile a breve periodo, mentre col passare del tempo sfuma la possibilità di raggiungerlo, che per loro significa conservarsi e copiarsi all'interno di un altro essere vivente. In altre parole i geni "investono" maggiormente in persone più giovani: non ha senso che continuino a farlo, a sostenersi e quindi a sostenere noi, all'interno di un sistema (il nostro organismo) che ha meno tempo da vivere. Affascinante, inquietante, ma razionale.

La proliferazione cellulare, il loro modo di continuare ad esistere ad un livello almeno uguale all'attuale, è più attiva nei bambini, nei ragazzi. E' come se i geni sapessero che quando c'è meno possibilità di durare non vale la pena sforzarsi per far riprodurre le cellule, continuare a lottare quando non manca tantissimo alla morte definitiva delle stesse. Sembra quasi una logica cattiva, ma provate a guardare indietro di millenni, tanti millenni: siamo ancora come eravamo allora ? no ? bè, è grazie a questo "sadismo genetico" se ci siamo sviluppati in modo eclatante rispetto all'uomo di Neandertal & co.

I geni hanno quindi un carattere molto egoista. Se sono lì, dentro di me e dentro di voi, è perchè sono stati selezionati per favorire la sopravvivenza delle copie di se stessi. Per questo, come la vita va avanti, essi smettono di preoccuparsi di ciò che ci accade. Inoltre, col passare del tempo, questo effetto si rafforza. Più è probabile che ci avviciniamo alla morte, tanto meno i geni hanno cura di noi. Meno i geni hanno cura di noi, più è probabile che il nostro cuore smetta di battere. Un tale sistema è andato avanti per tutta la nostra storia evolutiva, ed è per questo che abbiamo accumulato, a livello di genoma, tutti i tipi di "malfunzionamenti" irrecuperabili che portano al trapasso. Il genoma umano ne è pieno, e la maggior parte dei geni coinvolti sono gli stessi che regolano sviluppo e riproduzione. Queste anomalie convergono intorno ad una certa età: l'età in cui l'evoluzione smette di prendersi cura di noi, perché, statisticamente parlando, è come se fossimo già morti.

Lo so, può apparire perverso, però come si fa a non vedere dietro un simile progetto un'intelligenza superiore? E, allora, con la spiegazione scientifica data, concentrandoci sui singoli mattoncini della nostra esistenza, forse parlare di vita eterna ha più senso.


(fonte http://www.forbes.com/sites/quora/2016/07/13/biologically-speaking-this-is-why-humans-are-born-to-die )


martedì 19 luglio 2016

Parlami e ti dirò come stai


Avete mai sentito parlare della Evidence Based Medicine ? si tratta di quella corrente di pensiero tradizionalista secondo cui un'anamnesi andrebbe fatta giudicando solo dall'evidenza dei fatti, la presenza cioè di chiari sintomi e di analisi mediche che portano a diagnosticare la patologia di un paziente. Ad essa si contrappone la Narrative Based Medicine, secondo la quale non è affatto trascurabile il racconto in prima persona dell'ammalato, le sensazioni ed il dettaglio personalizzato dei suoi disturbi fisici. Probabilmente ogni medico dovrebbe usare entrambi gli approcci, ma se ascoltasse davvero il paziente, la sua voce potrebbe fornirgli utili informazioni. E' questa una tendenza futuristica e futuribile, di recente riproposta da una startup statunitense, Sonde Health, con l'intento di sviluppare un software per monitorare depressione e condizioni respiratorie o cardiovascolari, tramite l'analisi della voce.

Con lo sviluppo iperbolico delle recenti tecnologie, diversi enti di ricerca o aziende hanno provato a capire se i problemi di salute poteva essere diagnosticati in tempo utile mediante le informazioni "gratuite" che il corpo umano offre. Qui ad esempio avevamo discorso sulle possibili proprietà della saliva in tal senso; in quest'altro caso si presentava la possibilità di ricavare notizie sulle condizioni del nostro stato fisico mediante lo studio 3D facciale. L'ultimo ritrovato su questo fronte è invece l'analisi vocale. La società Sonde Health, in collaborazione con un team di ricerca dell'MIT, ha iniziato analizzando clip audio di pazienti che leggono ad alta voce, ma mira a sviluppare una tecnologia in grado di estrarre le caratteristiche vocali senza la necessità di registrare le parole.

Il ragionamento si basa sul fatto che una serie di condizioni mentali e fisiche può dare un tono diverso alle parole, allungare i suoni o parlare in tono più nasale. Esse possono anche dare delle piccole vibrazioni alla voce che però non sono rilevabili dall'orecchio umano. Da questo l'esigenza di usare delle applicazioni dedicate, con hardware specifici. Non è ancora del tutto chiaro come l'analisi dei modelli possa portare a diagnosi accurate. Ma non sono affatto fandonie, dato che altri attori stanno correndo su questo campo. L'IBM sta facendo uso del suo supercomputer Watson (qui ne avevo parlato a proposito della voce artificiale) per prevedere da alcuni modelli di discorso se i pazienti possono sviluppare un disturbo psicotico. A Berlino un'azienda sta provando a rilevare problemi da deficit di attenzione/iperattività con registrazioni vocali. Ancora, una società di Boston è alla prese con un'applicazione di analisi vocale per monitorare lo stato d'animo dei veterani di guerra.

Si tratta comunque di un campo complesso, dato che non è semplice isolare la vera causa dei cambiamenti nel tono mentre si parla. Si deve disporre innanzitutto di registrazioni di alta qualità affinchè i software lavorino correttamente; poi c'è bisogno di moltissimi dati prima di affermare che  le correlazioni tra risultati desunti e probabili patologie siano affidabili, escludendo quindi implicazioni di carattere culturale o motivazioni personali. Infine, l'annoso problema della privacy: qualcuno ha rilevato che un'analisi molto spinta potrebbe portare a caratterizzare in modo univoco i tratti di una certa voce; ma in questo momento la tecnologia non è così avanti.

Ve lo immaginate il futuro in cui spediamo per posta elettronica, o su Whatsapp, la registrazione della nostra voce ad un laboratorio (acustico, non medico) e dopo poche ore sappiamo di stare bene o iniziamo a preoccuparci se qualcosa non va ? E' uno scenario di telemedicina troppo anticipato ed azzardato? Può darsi. Penso, invece, a come potranno essere le intercettazioni di alcune persone poco pulite: non più soggette al pubblico ludibrio per scandali di ogni sorta, ma perchè la loro voce mostra, ad esempio, sintomi da psicosi. Non ci sarà nemmeno più possibilità di smentita.



mercoledì 13 luglio 2016

Gli angeli della Bari Nord




Quando guardi degli oggetti che hai visto tante, tantissime volte, non ci fai più caso. Sono messi lì perché la natura o il destino li ha posizionati. Col tempo non te lo chiedi più il motivo.

Quando viaggi e osservi degli alberi sfrecciarti davanti, se sei piccolo provi a considerare l'effetto che fa, come una giostra, magari ascolti lo strano rumore alternato che fa l'aria tra una chioma e l'altra, dovuto alla velocità. Poi cresci e la vista non è più quella oggettiva, il panorama estivo, arido e bollente, fa da sfondo ai pensieri. Pensi ai tuoi problemi quotidiani, a com'è andata ieri, alla speranza che oggi forse accadrà quella cosa che ti aspetti, a quel progetto a cui stai lavorando, ad una prova superata, dopo tanta applicazione. Oppure ai tuoi figli, ai tuoi nipoti, ai tuoi genitori, agli amici, a quella stronza che ti fa soffrire o a quel bastardo che ti ha lasciata. E invece quella seduta di lato pensa al suo amore, che non lascerà mai più. Un ragazzo si rilassa ascoltando la sua playlist preferita, fatta di emozioni, di sogni, di parole che sa a memoria. Un bambino gioca lungo il corridoio, un altro piange. Ti accorgi che c'è il controllore, prendi il biglietto dalla tasca, dalla borsa, dallo zaino. E intanto gli alberi vanno, la terra secca va, la tua terra, dove i tuoi avi hanno faticato, sudato, combattuto, ma anche la terra di chi, a malincuore, è dovuto partire per fortune migliori, portandone una zolla immaginaria con sè. Dai, tra qualche giorno vado al mare.


Io spero solo non vi siate accorti di niente.


venerdì 8 luglio 2016

Veicoli autonomi, chi sacrificare negli incidenti ?



L'inverno scorso è stato riproposto il dibattito vaccino si - vaccino no. Negli ultimi anni è stata una hit di successo, solo che stavolta si è aggiunta l'impennata dovuta alla probabile relazione tra vaccini ed autismo. Ci si chiede se un genitore deve essere propenso a vaccinare, accettando qualche rischio (veramente non ancora dimostrato), evitando così che batteri e virus si diffondano, oppure lasciare il pargolo senza precauzioni, pensando che questo sia il suo bene, ma permettendo alle malattie di diffondersi. Questo si definisce dilemma sociale. Qualcosa di simile si sta ponendo negli ultimi tempi circa la programmazione dei veicoli a guida autonoma, quelli tipo la Google-car, per intenderci. Vediamo perchè.

Allo stato attuale, l'intelligenza artificiale non è ancora evoluta al punto di prendere decisioni senza una programmazione umana, con la quale siamo noi stessi a decidere come un computer, un robot o qualsivoglia sistema digitale, debba comportarsi di fronte ad un evento. Proprio per questo un veicolo autonomo dovrà avere la capacità, appresa mediante complessi algoritmi, di decidere il da farsi davanti ad una situazione tipica della letteratura di settore, quella di un improvviso attraversamento di pedoni. Potrà succedere infatti che scansi il gruppo di pedoni ma buttandosi su un marciapiede colpisca una persona che passa in quel momento; oppure per scansarli si vada a schiantare mettendo in pericolo l'incolumità dei passeggeri; o ancora, al contrario, decida di proteggere gli occupanti dell'auto investendo uno o più pedoni. Parliamo naturalmente di situazioni in cui non basterebbe solo frenare per evitare l'impatto. Capire la soluzione migliore da scegliere, per chi programma, ha chiaramente un impatto etico e morale; perciò, se in futuro queste vetture si diffondessero davvero, i produttori e le autorità tecniche dovrebbero seguire un atteggiamento coerente in ogni situazione, evitare di provocare indignazione pubblica ed infine non scoraggiare gli acquirenti. Un compito al limite del possibile.

Per provare a tracciare un quadro più realistico, all'università della California, Dipartimento di Psicologia e Comportamento Sociale, hanno condotto sul tema sei diversi sondaggi online, raggruppando per ognuno circa 350 persone. I risultati hanno evidenziato un comportamento simile a quello della sindrome NIMBY , nel senso che le persone in primis mostravano preferenza per quei veicoli senza conducente che minimizzano il danno, ossia tendevano a sacrificare il singolo passeggero oppure il passante sul marciapiede, piuttosto che travolgere più pedoni in attraversamento. Ma, davanti a domande del tipo "vale ancora questo ragionamento con lei in macchina e suoi familiari ?", la probabilità di ottenere la stessa preferenza tendeva a scendere; ciò si faceva decisamente più forte se, a parità di logica di scelta da parte del veicolo, veniva chiesto agli intervistati se avessero voluto acquistare un mezzo del genere. In altre parole, le risposte avevano un certo trend se il partecipante rispondeva con la logica di stare fuori da quel veicolo, e probabilmente essere un pedone così salvato, ne avevano uno opposto se lui stesso si fosse trovato all'interno dell'abitacolo. Ecco l'assonanza con la Nimby: salviamo più vite umane solo se si decide delle vite altrui, salviamo noi stessi se invece possiamo trovarci in pericolo, ignorando l'esigenza dei tanti. 

Si tratta di un vero e proprio dilemma sociale. Si gioca infatti una partita tra la coppia vantaggio individuale - svantaggio collettivo e la coppia svantaggio individuale - vantaggio collettivo. Quasi tutti hanno chiara la finalità di risparmiare più vite umane possibili, minimizzare i danni del probabile incidente, ma poi, quando lo svantaggio individuale riguarda sè stessi, ci ripensano. Solo che nel caso dei veicoli autonomi è in gioco anche l'economia di scala che potrebbe portare al successo di questo genere di mobilità o alla loro fine prematura. Qualcuno potrebbe affermare l'inutilità di simili mezzi di trasporto. Certo, eliminare lo stress della guida, poter fare altre attività, essere sicuri di arrivare alla giusta destinazione senza seguire (e sbagliare) il navigatore, sono benefici importanti. Sarà un volano sufficiente per trovarcele sulle strade nei prossimi decenni ? O piuttosto le auto dei nostri epigoni avranno il pilota automatico solo come alternativa ? La tecnologia presenta ancora alcune falle da colmare. Se poi ci sono da risolvere anche questioni etiche e morali, apriti cielo. Intanto, qualche giorno fa, negli Stati Uniti, una Tesla a guida automatica, durante una prova su strada vera, si è schiantata contro un camion. Chissà, il software aveva un bug e al rientro sarebbe stato sufficiente fare un aggiornamento. Provate a dirlo ai familiari della vittima.