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venerdì 24 luglio 2015

In arrivo una nuova rivoluzione industriale ?


Nella storia dell’industria, fino ad oggi si distinguono 3 momenti topici, detti anche rivoluzioni industriali. La prima in assoluto risale a metà del ‘700 con l’introduzione della spoletta volante e della macchina a vapore, la seconda a fine ‘800 grazie all’avvento dell’elettricità e del petrolio, la terza iniziata una quarantina d’anni fa con l’uso massiccio di elettronica, informatica e telecomunicazioni. Ora sembra essere in arrivo una quarta rivoluzione industriale. Non dovrebbe costituire uno stravolgimento totale ma comportare diversi benefici orientati al consumatore finale. I presupposti sono gli stessi della terza di cui si diceva sopra, ossia la tecnologia evoluta sommata alla diffusione capillare del web, che in questo caso fa “solo” da infrastruttura di comunicazione e non di intrattenimento. In altre parole non si tratta di una gestione radicalmente diversa della produzione, quanto di una ipotesi di miglioramento destinato ad ottimizzare i tempi di consegna e le personalizzazioni. Il tutto deriva da un uso spinto del cloud e di una tecnologia definita internet industriale. 

Si tratta di una specializzazione dell’IoT (Internet of Things), mirata ad utilizzare dati condivisi per la produzione degli oggetti più disparati. Poiché si stima che nel 2020 alla rete globale saranno “agganciati” 25 miliardi di oggetti, moltissimi di questi saranno coinvolti in fabbriche altamente automatizzate che riusciranno ad effettuare correzioni in corsa nella realizzazione del prodotto finito. Il processo sarà così flessibile che le industrie saranno in grado di offrire una maggiore qualità e prodotti meno costosi rispetto al passato. Il Cloud e le applicazioni basate sui dati incrementeranno l’automazione della forza lavoro, spingendo verso una collaborazione tra le stesse macchine. Operatori umane qualificati e sistemi di intelligenza artificiale coordineranno produzione e flussi di lavoro, ottimizzando l'utilizzo dei robot e dei materiali in base alle esigenze di business. Le valutazioni della qualità in tempo reale sulla linea di produzione elimineranno gli scarti end-of-line (di fine linea) e tutti i prodotti “imperfetti”, ossia non conformi ai requisiti prestabiliti.

La personalizzazione costerà meno e sarà molto veloce grazie alla estrema flessibilità integrata nel prodotto sin dal  concepimento e progettazione. Ci saranno specializzazioni di produzione e varianti molto dettagliate, ad esempio con l’utilizzo di piattaforme di stampa 3D, di metallo o di plastica, tali da raggiungere una grande versatilità negli ambienti di produzione, anche pesanti. Diventerà normale per i consumatori e le imprese a progettare online i prodotti di cui hanno bisogno, e la relativa consegna potrà avvenire in tempi molto ridotti. Tutto in una estrema efficienza mai vista prima.

Anche se l’implementazione su larga scala richiederà tempo, diversi produttori (almeno negli USA) sono motivati ​​a inserire queste innovazioni nei loro sistemi produttivi. I costi incrementali nell’installazione di sensori e software per grandi produzioni di massa sono irrisori, mentre in termini di efficienza si possono raggiungere risparmi significativi. Chiaramente c’è ancora qualche punto di domanda: come fare a trasmigrare dai sistemi attuali “chiusi” a quelli smart basati sul cloud ? questi ultimi vinceranno le sfide della sicurezza ? si riuscirà davvero a convertire la attuale manodopera in un forza lavoro molto specializzata ? come sarà tutelata la proprietà intellettuale se i relativi dati possono essere preda di hacker senza scrupoli ? 

Solo una reale collaborazione tra industria, università e varie startup locali potrà far convergere la nuova  rivoluzione dell’internet industriale in un nuovo paradigma lavorativo, nel quale però andrà posta sempre molta attenzione, pur 100 anni dopo, alle preoccupazioni del signor Gramsci su come l’industria, in qualsiasi rivoluzione si trovi, deve interpretare e sviluppare le strette connessioni tra l’elemento antropologico, quello economico e le conseguenti ricadute sociali.




martedì 14 luglio 2015

Gli uomini e la Chiesa: riflessioni morettiane


Quando frequentavo l’Azione Cattolica, ormai un secolo fa, ascoltavo gli educatori ma per la giovane età che avevo non mi facevo troppe domande e non le ponevo neanche a loro. Poi, crescendo, avrei voluto farne tante, recuperare in qualche modo, su tematiche come la fede, la Chiesa, il rapporto uomo-Dio, a chi mi si parava davanti e giudicavo abile a rispondere, ma raramente qualcuno mi ha soddisfatto al riguardo. Così sono arrivato in età matura senza molte certezze sull’argomento. Per un periodo mi sono definito agnostico. E forse lo sono ancora.

Qualche settimana fa ho guardato per la prima volta, con colpevole ritardo, il film Habemus papam di Nanni Moretti. Sicuramente molti di voi l’avranno visto. Io l’ho trovato geniale. E’ stato prodotto e pensato in epoca Ratzinger: chissà se il girotondino Moretti l’avrebbe girato ugualmente nell’epoca odierna di Francesco. Credo di sì, visto che l’umanità e la grandezza del pontefice attuale non può d’amblè sciogliere come neve al sole tutti i dubbi di chi, come me, si è perso per strada in questo pseudo-cammino spirituale.  

Quei dubbi sono gli stessi che affliggono il papa nel film, appena dopo la sua elezione. Un papa che sente il peso del suo ruolo e fugge perché davanti ad una carica così grande gli tornano in mente i dubbi di tutta la sua vita. Un papa che va in crisi perché ha le paure umanissime di tutti gli uomini che devono sopportare le responsabilità, che appartengono a quel ruolo ma sono, per certi versi, le stesse della vita vera, fatta di problemi quotidiani e di famiglie da tenere in piedi con mille problemi. Un papa che in qualche modo anticipa la stessa crisi di Ratzinger del 2013 e forse di tutta la chiesa, la crisi di vocazioni, di ragazzi e di giovani che si sono allontanati da certe “congreghe”, oppure non si sono mai avvicinati, anche perché presi da genitori troppo attenti ai loro risultati materiali.

Significativi alcuni passaggi, come quando lo psicologo interpretato da Moretti cerca di rendere semplici certe “visioni” che la Chiesa nel tempo ha sempre volutamente esagerato per tenere la plebe alla dovuta distanza. Oppure la presenza della guardia svizzera dietro la finestra dove dovrebbe esserci il Pontefice eletto, che invece è in giro per Roma a ritrovar sé stesso; così i cardinali scambiano la guardia per il Papa e si rincuorano. Qui ne ho visto un piccolo parallelo con un film dalle logiche attinenti, L’ultima tentazione di Cristo, di Scorsese: Willem Defoe, nei panni di Gesù, lascia la croce andando a vivere una vita normale con Maddalena e si crea una famiglia, ma ad un certo punto sottolinea che la gente ha sempre bisogno del miracolo della resurrezione, indipendentemente da come sia andata davvero. 

Habemus Papam mi è parso, al di là della centralità dell’ambiente ecclesiastico, un film sugli uomini, ognuno con la propria storia carica di vissuto e di perché mai svelati, sulle voci dell’intimità che vengono fuori e si sovrappongono, che difficilmente ci abbandonano. Oserei dire che la sua riuscita, a mio modesto parere, deriva anche dal fatto che il regista è un non credente, scevro da certi populismi e arretratezze non ancora risolte. Un cardinale, di fronte alle grandi difficoltà di un semplice torneo di pallavolo, dice a Moretti “Perché non giochiamo a palla prigioniera ?” e lui  “Cardinale, ma non esiste più da 50 anni”…. E’ il film di un papa che gira tra le persone, smarrito, che va in auto con la psicanalista e i suoi figli, che si mostra molto vicino a noi, senza distanze. 

Per fortuna che ad accorciare certe distanze l’attuale papa Francesco è un vero maestro. Assomiglia molto ad un Maestro di 2000 anni fa. Sembra che facesse proprio così. 

lunedì 6 luglio 2015

Ridurre la mortalità infantile con bassi investimenti e metodi scientifici


Nel mondo muoiono più di 6 milioni di bambini sotto i 5 anni ogni 12 mesi. E’ una tristissima realtà. Ci consideriamo una civiltà evoluta sotto molti aspetti, ma quando lo facciamo dimentichiamo un mucchio di problemi irrisolti. Uno di essi è appunto l’altissimo tasso di mortalità infantile. Si deve fare di più, molto di più. Intanto alcuni programmi di finanziamenti internazionali per questo scopo qualche risultato l’hanno raggiunto. All’IHME (Institute for Health Metrics and Evaluation) dell'Università di Washington, in collaborazione con il Segretariato ONU per lo sviluppo degli obiettivi su salute e malaria, hanno recentemente redatto un bilancio positivo secondo cui dal 2000 al 2014 sono stati salvati circa 34 milioni di bambini, grazie ad investimenti mirati.

In questi 15 anni la somma della spesa per la salute infantile è stata di circa 200 miliardi di dollari, suddivisa in 2/3 nei paesi a basso-medio reddito procapite (salvandone 20 milioni) contro il restante 1/3 speso da quelli a reddito medio-alto (salvandone 14). La cifra stimata per ognuno di questi piccini va dai 4000 ai 10000 dollari, a seconda del posto dove vivono (meglio, dove sono riusciti a sopravvivere). Oltre alle cifre riscontrate lo studio ha realizzato un importante metodologia di valutazione a punteggio (scorecard in inglese) con la quale si riesce a monitorare concretamente come funzionano gli investimenti e quali risultati portano. Lo scorecard è stato realizzato seguendo le linee guida della Millenium Declaration, firmata nel 2000 da tutti i paesi dell’ONU con l’obiettivo di ridurre di 2/3 il tasso di mortalità dei bambini sotto i 5 anni in ciascun paese fino al 2015. 

Per ogni bambino un investimento limitato può dare il massimo risultato ottenibile in termini di impatto sociale. Questo accade a maggior ragione nei paesi più poveri, dove il costo dei programmi nutrizionali, vaccini e cure è più basso. Ad esempio la minima spesa di 4200 dollari è stata necessaria in paesi in condizioni di estrema difficoltà, come Tanzania ed Haiti. D’altro canto, a fronte di sforzi come quelli fatti, sono ancora troppi i bambini che muoiono e senza una pianificazione internazionale che possa appoggiarsi ai risultati incoraggianti emersi da questa ricerca, non si potrà incrementare il livello di salute. 

Gli aiuti che arrivano ai paesi in difficoltà vanno monitorati, sia da parte di chi li riceve, per concentrarsi sui programmi che si sono rivelati più efficaci a salvare vite umane, sia per chi li elargisce, in modo da avere una visione globale del flusso di contributi ed individuare aree poco sostenute. Questo ora è possibile grazie alla messa a punto dei ricercatori del metodo con lo scorecard: se ad un paese con investimenti in aumento non corrisponderà la relativa decrescita del tasso di mortalità il metodo darà una pronta segnalazione, al fine di correggere il tiro prima possibile. Insomma una gestione manageriale degli aiuti, rigorosa e dai caratteri scientifici, pur ottenuta con cifre irrisorie rispetto all'incommensurabile valore dei risultati. 

All’IHME sperano che lo scorecard sarà ulteriormente sviluppato e aggiornato ogni anno per misurare gli effetti degli investimenti, incentivare il progresso e l'innovazione socio-economica. E, non ultimo, questa cartina di tornasole potrà essere uno strumento importante per promuovere  responsabilità e sensibilità, accelerando il cammino verso l'obiettivo fondamentale di diminuire la sofferenza in tutto il mondo.



(fonte http://www.eurekalert.org/pub_releases/2015-07/ifhm-moc070215.php; si ringrazia il sito http://www.gogomojosuperfly.com per la gentile concessione della foto)