Tre le
tappe che mi hanno portato a scrivere ciò che state per leggere. La prima nel
1996 in un comune della murgia barese, la seconda a Roma, nel settembre 2012, la
terza, pochi giorni fa, qui a casa. In mezzo io, o meglio, la mia anima altalenante, a fare da filo conduttore. Ho idea che
butterò giù più righe del solito.
Non ho
fatto il servizio militare ma il servizio civile. Allora si dichiarava di
essere obiettori di coscienza, la cosa non mi piaceva granché, fuorviato da
certi pensieri socio-politici a favore delle armi, comunque senza eccessi. Il
tempo e la maturità “matura” hanno poi cambiato quelle distorsioni mentali.
Così nel ’96 mi trovai a fare l’obiettore tirocinante (il servizio l’avrei
fatto l’anno seguente) presso alcuni posti della mia ex provincia di residenza,
quella di Bari, capitando un giorno nel paese di Santeramo, in una struttura
dal nome Casa Calabrese, dove venivano ospitati soggetti con problemi di
disagio sociale. Ne restai profondamente scosso, non certo perché temevo il
contatto con loro, quanto per la mia inquietudine di essere umano e per come la
mia “specie” non riusciva (e non riesce) a risollevare degnamente queste
persone.
Un paio
di anni fa ho frequentato nella nostra capitale un corso in Comunicazione
Scientifica, 8 weekend interessanti, essenzialmente lezioni teoriche con
pochissime visite di “comunicazione applicata”. Un sabato ci siamo recati al
Museo della Mente, aperto nel 2000 presso un padiglione dell’ex manicomio di
Roma a Santa Maria della Pietà, l’anno dopo della chiusura definitiva di quella
casa di cura (è un eufemismo, lo capite da soli) e di tutte le altre in Italia.
Un museo che museo non è (tra l’altro con vicissitudini economiche non semplici),
voglio dire non nel senso tradizionale del genere: si tratta di un percorso
sensoriale nel vero senso della parola, atto a stimolare le coscienze su come
venivano (mal)trattate le persone che vivevano là dentro. “Entrare fuori,
uscire dentro” è una scritta che campeggia all’ingresso, frase emblematica di
come gli ospiti, nell’imminente uscita, confondessero la realtà. Un exhibit
curato da Studio Azzurro, uno dei più grandi studi italiani di comunicazione.
Per chi volesse, qui è disponibile
un video, preparatevi perché l’angoscia che se ne ricava (sempre meno di chi ha
visto il museo, immaginate quella di chi c’era) è tanta.
Il terzo
step riguarda il film “C’era una volta la città dei matti”, che ho visto di recente ma è uscito in tv nel 2010. Molto brevemente
(ma anche in tal caso se avete 3 ore e vi interessa, questo il link), parla di Franco Basaglia, psichiatra e neurologo
italiano, della sua lotta dagli anni ’60 al 1980, anno della sua morte, per far
conoscere agli italiani e al mondo intero le forme di segregazione disumane
alle quali sottostavano i pazienti dei manicomi, il dolore fisico e morale che
subivano, di come avessero bisogno di un riconoscimento umano da parte dei
“normali”. Come viene ripetuto nel film, era il malessere della società che
portava le persone ad ammalarsi e a finire in quelle strutture, veri e propri
lager dove la gente veniva abbandonata, prima di tutto dai propri cari. Era il
cuore di pietra e l’anima cieca del beato mondo di fuori a non far vedere la sofferenza
indotta in quegli uomini, per i quali un evento drammatico della propria vita
non aveva più donato la forza di ricominciare, di reinserirsi, di difendere
i propri diritti e i propri affetti. Dunque,
i manicomi rappresentavano la prigione delle nostre paure, tutte lì racchiuse
ed isolate, nell’illusione che certi comportamenti non visti non esistessero realmente
e, peggio ancora, nell'illusione che non fosse stato nemmeno il cinismo della società, cioè
noi stessi, a cagionarli.
Franco
Basaglia fu una persona veramente speciale, aperta e sensibile, che unì le sue
doti professionali a quelle, più grandi, umane, diffondendo l’equazione uomo
uguale dignità a prescindere, predicando ed applicando il rispetto verso quella
gente e la libertà come terapia. Ma, forse, i sentimenti non sarebbero bastati
se quel medico e i suoi collaboratori non avessero avuto il coraggio di
continuare a lottare, perché, come disse lui stesso, “non basta affermare un
diritto per realizzarlo”. E quel coraggio fu premiato con la legge 180 del 1978
che porta il suo nome, stravolgendo l’ordinamento degli istituti psichiatrici a
favore dei malati. La stessa OMS gliene diede grande merito. Inoltre Basaglia
combatté, sul campo e nella politica, anche per il dopo, affinché chiusi i
manicomi ci fossero strutture adeguate per curare davvero chi aveva bisogno. I
risultati nel tempo non sono stati generosi come lui avrebbe voluto, anche
perché, al solito, è solo la nostra mentalità che può dare la svolta alle cose,
sono lo spirito di comprensione delle differenze e la sensibilità nel cuore le armi
di cui abbiamo bisogno.
Per
chiudere, anche facendo quella che sembra una digressione ma una digressione
non è, negli ultimi anni si va parlando sempre più di innovazione, di
cambiamenti, di come si debba osare per cambiare il mondo, restando “affamati e
folli” per dirla alla Jobs (apro una parentesi: a me appaiono "affamati" i
giovani cinesi che costruiscono quegli oggetti, "folli" coloro che acquistano un
telefono a 700€). Sono doti certamente necessarie, ma serve tutt’altro quando
si tratta di dare il doveroso contributo per chi sta peggio di noi. E questo
vale anche se sui manicomi la pensate diversamente. Perché da quel lontano 1996
ho forse capito che cosa è necessario per lasciare un segno in questa landa sempre
meno sorridente che è la Terra, per fare in modo che quel segno renda migliore la vita di chi è discriminato, ma anche, in generale, per rischiarare le nebbie del futuro. Sono la sensibilità ed il coraggio. La
sensibilità di capire, il coraggio di cambiare. La sensibilità per aprire il
cuore, il coraggio per diventare Uomini.
PS “Se
vi togliessero tutto quello che avete, cosa resterebbe di voi ?”
(si ringrazia il sito http://www.lorenzopolvanifotografie.com
per la gentile concessione della foto)
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