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venerdì 12 settembre 2014

Tre tappe per capire



Tre le tappe che mi hanno portato a scrivere ciò che state per leggere. La prima nel 1996 in un comune della murgia barese, la seconda a Roma, nel settembre 2012, la terza, pochi giorni fa, qui a casa. In mezzo io, o meglio, la mia anima altalenante, a fare da filo conduttore. Ho idea che butterò giù più righe del solito.

Non ho fatto il servizio militare ma il servizio civile. Allora si dichiarava di essere obiettori di coscienza, la cosa non mi piaceva granché, fuorviato da certi pensieri socio-politici a favore delle armi, comunque senza eccessi. Il tempo e la maturità “matura” hanno poi cambiato quelle distorsioni mentali. Così nel ’96 mi trovai a fare l’obiettore tirocinante (il servizio l’avrei fatto l’anno seguente) presso alcuni posti della mia ex provincia di residenza, quella di Bari, capitando un giorno nel paese di Santeramo, in una struttura dal nome Casa Calabrese, dove venivano ospitati soggetti con problemi di disagio sociale. Ne restai profondamente scosso, non certo perché temevo il contatto con loro, quanto per la mia inquietudine di essere umano e per come la mia “specie” non riusciva (e non riesce) a risollevare degnamente queste persone.

Un paio di anni fa ho frequentato nella nostra capitale un corso in Comunicazione Scientifica, 8 weekend interessanti, essenzialmente lezioni teoriche con pochissime visite di “comunicazione applicata”. Un sabato ci siamo recati al Museo della Mente, aperto nel 2000 presso un padiglione dell’ex manicomio di Roma a Santa Maria della Pietà, l’anno dopo della chiusura definitiva di quella casa di cura (è un eufemismo, lo capite da soli) e di tutte le altre in Italia. Un museo che museo non è (tra l’altro con vicissitudini economiche non semplici), voglio dire non nel senso tradizionale del genere: si tratta di un percorso sensoriale nel vero senso della parola, atto a stimolare le coscienze su come venivano (mal)trattate le persone che vivevano là dentro. “Entrare fuori, uscire dentro” è una scritta che campeggia all’ingresso, frase emblematica di come gli ospiti, nell’imminente uscita, confondessero la realtà. Un exhibit curato da Studio Azzurro, uno dei più grandi studi italiani di comunicazione. Per chi volesse, qui è disponibile un video, preparatevi perché l’angoscia che se ne ricava (sempre meno di chi ha visto il museo, immaginate quella di chi c’era) è tanta.  

Il terzo step riguarda il film “C’era una volta la città dei matti”, che ho visto di recente ma è uscito in tv nel 2010. Molto brevemente (ma anche in tal caso se avete 3 ore e vi interessa, questo il link), parla di Franco Basaglia, psichiatra e neurologo italiano, della sua lotta dagli anni ’60 al 1980, anno della sua morte, per far conoscere agli italiani e al mondo intero le forme di segregazione disumane alle quali sottostavano i pazienti dei manicomi, il dolore fisico e morale che subivano, di come avessero bisogno di un riconoscimento umano da parte dei “normali”. Come viene ripetuto nel film, era il malessere della società che portava le persone ad ammalarsi e a finire in quelle strutture, veri e propri lager dove la gente veniva abbandonata, prima di tutto dai propri cari. Era il cuore di pietra e l’anima cieca del beato mondo di fuori a non far vedere la sofferenza indotta in quegli uomini, per i quali un evento drammatico della propria vita non aveva più donato la forza di ricominciare, di reinserirsi, di difendere i propri diritti e i propri affetti.  Dunque, i manicomi rappresentavano la prigione delle nostre paure, tutte lì racchiuse ed isolate, nell’illusione che certi comportamenti non visti non esistessero realmente e, peggio ancora, nell'illusione che non fosse stato nemmeno il cinismo della società, cioè noi stessi, a cagionarli. 

Franco Basaglia fu una persona veramente speciale, aperta e sensibile, che unì le sue doti professionali a quelle, più grandi, umane, diffondendo l’equazione uomo uguale dignità a prescindere, predicando ed applicando il rispetto verso quella gente e la libertà come terapia. Ma, forse, i sentimenti non sarebbero bastati se quel medico e i suoi collaboratori non avessero avuto il coraggio di continuare a lottare, perché, come disse lui stesso, “non basta affermare un diritto per realizzarlo”. E quel coraggio fu premiato con la legge 180 del 1978 che porta il suo nome, stravolgendo l’ordinamento degli istituti psichiatrici a favore dei malati. La stessa OMS gliene diede grande merito. Inoltre Basaglia combatté, sul campo e nella politica, anche per il dopo, affinché chiusi i manicomi ci fossero strutture adeguate per curare davvero chi aveva bisogno. I risultati nel tempo non sono stati generosi come lui avrebbe voluto, anche perché, al solito, è solo la nostra mentalità che può dare la svolta alle cose, sono lo spirito di comprensione delle differenze e la sensibilità nel cuore le armi di cui abbiamo bisogno.    

Per chiudere, anche facendo quella che sembra una digressione ma una digressione non è, negli ultimi anni si va parlando sempre più di innovazione, di cambiamenti, di come si debba osare per cambiare il mondo, restando “affamati e folli” per dirla alla Jobs (apro una parentesi: a me appaiono "affamati" i giovani cinesi che costruiscono quegli oggetti, "folli" coloro che acquistano un telefono a 700€). Sono doti certamente necessarie, ma serve tutt’altro quando si tratta di dare il doveroso contributo per chi sta peggio di noi. E questo vale anche se sui manicomi la pensate diversamente. Perché da quel lontano 1996 ho forse capito che cosa è necessario per lasciare un segno in questa landa sempre meno sorridente che è la Terra, per fare in modo che quel segno renda migliore la vita di chi è discriminato, ma anche, in generale, per rischiarare le nebbie del futuro. Sono la sensibilità ed il coraggio. La sensibilità di capire, il coraggio di cambiare. La sensibilità per aprire il cuore, il coraggio per diventare Uomini.


PS “Se vi togliessero tutto quello che avete, cosa resterebbe di voi ?”



(si ringrazia il sito http://www.lorenzopolvanifotografie.com per la gentile concessione della foto)


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