L’attività dell’uomo a partire dalla rivoluzione industriale ha triplicato
la quantità di mercurio in alcune zone
poco profonde del mare, aumentando
in modo serio la minaccia per la salute umana
in tutto il mondo. E’ quanto emerge da una ricerca condotta da un
team internazionale guidato da Carl Lamborg,
oceanografo presso l'istituto Woods Hole
in Massachusetts.
La
maggior parte dei processi industriali che bruciano carbone emettono
mercurio in atmosfera: lì, il metallo può viaggiare per mesi e migliaia di
chilometri, fino a ricadere negli oceani a causa delle
piogge. Con un meccanismo ancora poco chiaro, i batteri lo convertono nel metilmercurio, una neurotossina, la
quale a lungo andare si deposita nei pesci mediante la catena alimentare. Per verificare
meglio la presenza di mercurio, Lamborg e i suoi ricercatori hanno intrapreso
diverse crociere nei principali mari, raccogliendo campioni d’acqua a diverse
profondità per ben 8 anni, grazie al contributo del programma Geotraces, interessato a mappare la distribuzione degli elementi essenziali
all’interno delle acque. La sfida non si presentava
semplice perché il metallo è presente
solo in piccole concentrazioni in
acqua di mare. Gli scienziati però hanno scoperto che nei
bacini oceanici il rapporto tra mercurio e CO2
generati dall’uomo tende a rimanere
costante allo stesso livello di profondità, anche perché la combustione del carbone emette sia mercurio
che CO2. Quindi, utilizzando i database
esistenti sulla CO2 misurata nelle acque oceaniche, è stato calcolato
un rapporto numerico tra le due sostanze, dal quale è stato possibile stimare
la quantità e la distribuzione di
mercurio.
I risultati indicano che il mare contiene circa da 60.000 a 80.000 tonnellate di mercurio da inquinamento, con quasi due terzi al di sotto dei 1000 metri. Il dato più preoccupante è che la concentrazione di mercurio nelle acque profonde fino a 100 metri è triplicata rispetto al periodo preindustriale: di conseguenza è molto aumentata la probabilità di trovare maggiori quantitativi di neurotossina accumulata nel pesce che mangiamo, esponendoci a maggior rischio di avvelenamento da mercurio. Secondo i ricercatori i paesi più vulnerabili in questo senso sono quelli che si affacciano sull'Oceano Atlantico settentrionale.
Anche
con questi dati però non è possibile verificare con accuratezza il trend
di aumento dei livelli di mercurio
nei pesci marini e nelle persone che
li consumano, fanno notare all’istituto del
Massachusetts. Questo perché gli
scienziati non sanno esattamente qual
è il processo che porta il mercurio inorganico a
divenire metilmercurio tossico. Però
lo studio è un’ottima base di partenza per considerazioni di politica ambientale
planetaria. Infatti di recente più di cento nazioni hanno firmato la Convenzione Minamata (dal nome di un paese giapponese che negli anni ’50 fu
affetto da un’alta mortalità causa gli scarichi al mercurio di un impianto
chimico locale), un trattato internazionale per ridurre i livelli di emissione
pericolosi attraverso misure severe, quali il divieto di nuove miniere
di mercurio. I dati ottenuti da Lamborg potrebbero essere molto utili
per rivedere e rinforzare le misure che stanno per essere adottate.
Nessun commento:
Posta un commento