I problemi più difficili hanno una difficoltà intrinseca, anche di impatto iniziale, da far pensare a contorsioni mentali e gestionali per risolverli. A volte, però, un’attenta analisi del problema comporta una soluzione più semplice del previsto. Se ci è successo, avremo detto sicuramente “era così facile, averlo pensato prima !”. Qualcosa di simile sarà capitato agli amministratori dello stato dello Utah, quando hanno compreso che per ridurre drasticamente il numero di senzatetto bastava dar loro una casa. La risposta più banale in questo caso ha funzionato, eccome.
I senzatetto, da molti visti come scansafatiche o
irresponsabili, sono (parere mio personale) soltanto degli esclusi. Certo, in
taluni casi non saranno stati stinchi di santo, avranno vissuto vite non
irreprensibili, ma non per questo non è giusto dar loro una seconda
possibilità. Vanno bene le iniziative di quegli “angeli notturni” che cercano
di ristorarli, fisicamente con coperte e pasti caldi, moralmente con un po’ di
compagnia ed un sorriso. Ma nello Utah, dopo calcoli neanche difficili, hanno
capito che, oltre al recupero umano di questi poveri diavoli, c’era anche un risparmio
economico dietro l’angolo. (Parentesi: se dobbiamo pensare che l’hanno fatto
solo per soldi, pensiamolo pure, ma per stavolta è il risultato che conta).
Sin dal 2001 hanno affrontato il problema sociale di
chi non ha una fissa dimora. Lo spunto è venuto da uno studio dell’Università
della Pennsylvania, secondo il quale i senzatetto perdono le minime opportunità
offertegli proprio perché non hanno alloggio. Monitorando 4000 persone a New York per quattro anni, due
anni vissute per strada e due in alloggi forniti dal Comune, lo studio aveva
sottolineato una differenza significativa di spesa, ossia i costi per i servizi
di accoglienza, carcere e/o ospedale erano superiori a quelli per fornire un
alloggio stabile, un'assistenza sanitaria e un’opportunità d'impiego. Grazie a
quello studio e ad una buona lungimiranza, negli ultimi 10 anni lo Utah ha
ridotto di un sorprendente 91% il numero di senzatetto, riuscendo a conservare
anche 8000 dollari all'anno per persona. Ne sono rimasti così pochi che lo
stato ne conosce nomi e storie.
Il programma è stato chiamato Housing First, proprio
perché era diventata evidente la funzione della casa per ridare dignità a
queste persone. Successivamente ad essi è stata offerta una possibilità
lavorativa, ma sta a loro decidere se accettare o meno: la maggior parte è ben
lieta di darsi da fare. In più, chi ne ha bisogno può usufruire di una
consulenza per essere aiutato a superare i suoi ostacoli psichici: ora che non
devono preoccuparsi di dove passare notte, un trattamento con uno
“strizzacervelli” ha una maggiore possibilità di funzionare. Se da un lato è
facile calcolare il denaro risparmiato, dall’altro si evince l’efficacia di
questa politica per salvare molte vite.
Nel paradigma delle smart cities, oltre l’imperante proposta
tecnologica, si nota qualcuno che dà voce ai bisogni dei cittadini, quelli
primari, che comunque concorrono a creare una città che funziona veramente. Una
città che non dimentica nessuno dei propri figli. Molto apprezzabile quindi la smartness,
in tal senso, implementata nello Utah. Le pianificazioni sociali delle grandi
metropoli e, a seguire, di tutte le altre città, dovrebbero prevedere aiuti di
questo genere, spremersi per trovare i finanziamenti necessari a generare
programmi di housing sociale, che aiutino sia i senzatetto che quelli sulla
soglia della povertà. Se la smart city è il modello a cui ambire per il futuro
urbano, senza queste politiche resterà un modello solo sulla carta.
(fonte
http://smartcitiescouncil.com/article/utah-nearly-eliminates-homelessness-solution-sounds-too-simple-work;
si ringrazia il sito http://www.shc.edu per la
gentile concessione della foto)
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