La
tecnologia come interazione concreta tra uomo e macchina, volta ad accrescere,
formare, migliorare, rendere più abili e fluide le nostre vite, averne un
impatto costruttivo. E’ questo il fil rouge dell’intervista realizzata di
recente dal vice direttore di MIT Tech Review (e-magazine del prestigioso
istituto tecnologico di Boston) al professor Kentaro Toyama, docente di
Computer Science all’università del Michigan e profondo conoscitore delle connotazioni
sociali derivanti dalla tecnologia.
Toyama ha
scritto un libro, di prossima uscita, dal titolo Geek Heresy: Rescuing
Social Change from the Cult of Technology (qui la
presentazione). Al di là
della prima parte ad effetto, il titolo contiene un’importante sinossi del suo
pensiero, ossia di come il mondo si stia lasciando travolgere, nel senso
negativo del termine, dal culto tecnologico, per il quale spesso si sacrificano
i rapporti umani e sociali, i veri gangli vitali della nostra specie. Parte del
testo deriva dalla sua esperienza di alcuni anni in India, dove il professore
si era illuso di introdurre facilmente gli strumenti informatici allo scopo di
migliorare l'istruzione e ridurre la povertà. Ma in quegli anni ha capito che
se il terreno non è ben predisposto, preparato, “fertilizzato” a dovere, il
seme della tecnologia e soprattutto i conseguenti benefici non possono
attecchire. Si è fatto l’idea che certi tecnologi possano addirittura
contrastare il progresso sociale, promuovendo delle soluzioni che predominano
nel breve termine ma che a lungo andare contrastano i cambiamenti più
significativi e necessari.
Nel paese
del sacro Gange Toyama e il suo team di ricercatori della Microsoft hanno
sviluppato moltissimi progetti pilota, ma difficilmente qualcuno di essi ha
avuto un seguito nella vita quotidiana. Qualche passo avanti è stato fatto in
ambito sanitario, come ad esempio in piccole cliniche rurali l’accesso ad
Internet ha permesso di usare la telemedicina e poter visitare a distanza
persone ammalate. Un cambiamento però superficiale che, in tema di salute, non
può sostituire conquiste sociali più importanti, come la cultura della
prevenzione.
L’altro tema
a cui si sono dedicati è l’agricoltura, sulla quale la parte più povera
dell’India basa la sua economia. All’inizio sembrava semplice portare pc e
videoproiettori per illustrare e mostrare come si possono migliorare certe
tecniche e provare ad insegnarle. Ma col tempo si sono accorti che era
fondamentale provocare discussioni, stimolare idee: i contadini avevano bisogno
di conferme ma anche di smentite tra loro, sentirsi dire che quello che la
tecnologia gli spiegava era vero perché uno come loro ci stava già provando. In
tal modo si è riusciti a diffondere pratiche agricole più evolute, non solo
tramite presentazioni spettacolari e monodirezionali, ma con uno scambio
interattivo tra i lavoratori stessi.
Per quanto
riguarda l’istruzione, invece, Toyama afferma che i progetti lanciati a
pioggia, tipo quelli di invadere le scuole con pc, internet, senza un mirato coinvolgimento
dei piccoli, sono serviti a poco. Molti studi dicono che la sola presenza di
queste moderne infrastrutture didattiche non aumentano il rendimento degli
scolari. I bambini vedono questi oggetti tecnologici come dei nuovi giocattoli,
all’inizio l’entusiasmo è a mille, ma col tempo senza una guida che li stimoli
a provare, imparare, che li conduce verso i reali benefici che si possono ottenere,
si rischia di creare inutili dipendenze. Questo concetto, dice il professore,
può essere esteso a tutta la civiltà del XXI secolo. Si tende a pensare quasi
sempre al contenuto e al mezzo più all’avanguardia per veicolarlo, quando
invece è più fondamentale dare agli studenti, piccoli e grandi, la motivazione
ad imparare qualcosa di nuovo, magari facendolo con le proprie mani su un
computer, anche non nuovissimo.
Importante il riscontro e lo scoperta di come lo sviluppo mentale di chi
programma sommato alle peculiari caratteristiche della propaggine elettronica possa
condurre a risultati eccellenti. Ma i ragazzi vanno stimolati, incuriositi, e
ciò può avvenire solo con il supporto di adulti preparati (e magari motivati
anche loro stessi, ma questo forse è un altro discorso).
Quella
tecnologia che ci rende la vita più semplice, che ci sembra regalare più tempo
libero, può fare l’effetto contrario. I risultati che Toyama dice di aver
raggiunto sono merito del gruppo di persone, sia in laboratorio che sul campo,
grazie ad un intreccio di volontà e ad un saper istruire, saper donare una
qualità della vita superiore che difficilmente un’intelligenza artificiale
possiede. Dunque, una tecnologia che diventa qualificante solo se è uno
strumento in mano a persone sapienti, diventa un beneficio a lungo termine solo
con progetti a portata d’uomo, tagliati su misura per un certo territorio, una
data popolazione, un settore che la recepisca entro limiti non invasivi. E forse
la tecnologia è davvero abilitante se ogni nuovo dispositivo viene progettato
per soddisfare un vero bisogno, non per crearne uno nuovo.
(fonte
http://www.technologyreview.com/qa/536701/putting-technology-in-its-place/
; si ringrazia il sito www.herdigitalangle.wordpress.com
per la gentile concessione della foto)
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