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venerdì 27 gennaio 2017

Cogito ergo … login


Pare che Orwell avesse visto bene il futuro con il suo “1984”. Siamo tutti sotto controllo, anche nel senso meno deleterio del termine. Per chi ci crede poco vale la sacrosanta legge della privacy. E proprio questi, non appena viene fuori una tecnologia che la protegge, vanno in brodo di giuggiole. Allora parliamone. Le password sono quasi preistoria, i parametri biometrici tipo impronte digitali o lettura dell’iride (per sistemi non consumer) sono ancora in uso, ma chi vuole cautelarsi in maniera sopraffina cerca qualcosa di più. Come fare allora ? L’ultimo trend, per ora sperimentale, riguarda le onde cerebrali. Attenti però a non alzare troppo il gomito, perché rischiereste di non accedere ai vostri dispositivi.

Al dipartimento di informatica della Texas Tech University stanno portando avanti una ricerca per usare le onde cerebrali come efficace strumento di autenticazione. Con le onde cerebrali si parla di autenticazione comportamentale: gli impulsi elettrici trasmessi continuamente dal nostro encefalo vengono usati per una verifica costante dell’utente, in modo che il dispositivo che stiamo usando conosce in ogni istante chi ha di fronte, ossia il suo legittimo proprietario. Invece di richiedere un codice, il computer (o lo smartphone) può visualizzare una serie di parole sullo schermo e misurare la risposta dell'utente tramite una cuffia EEG (elettroencefalografica), o con un dispositivo analogo. Le firme EEG sono uniche e molto più complesse di una password standard, quindi difficili da individuare. La sicurezza sarebbe notevolmente potenziata.

Questo genere di modelli di autenticazione, costruiti intorno all'utente e quindi ancora più specifici potrebbero però essere manipolati dal sistema, ricavando dati in tempo reale (molti più rispetto all'uso dei cookies) sullo stato emotivo e su altre caratteristiche "intime" degli utenti. Quindi chi propone la futuristica modalità di login mette anche in guardia su cosa esattamente devono lavorare i sistemi di autenticazione EEG, tralasciando cioè tutti i dettagli personali che non concernono la sola verifica dell'utente (tanto poi Google o chi per lui farà comunque ciò che gli fa comodo, n.d.r.). Insomma, il rischio è di proteggere la privacy dai pesci piccoli per farsela violare da quelli grandi.

Allo stato attuale la precisione di questi sistemi non è del 100% (ne conoscete uno che ce l’ha ?) ma si stima intorno al 94%. Valore che tende a scendere se l’utente non è lucidissimo, in particolare se ha bevuto o se ha assunto sostante psicotrope. Oppure qualche caffè di troppo. Al Rochester Institute of Technology hanno testato l’accesso ad onde neurali proprio in queste occasioni. E pare che si scenda addirittura al 33%. In futuro, quindi, oltre alle auto, dovremo stare lontani dal pc, se il nostro tasso alcolico sarà superiore alla soglia di intelligibilità digitale.

Ma il problema non si limita solo alle sostanze tossiche. Presso l'università di Berkeley alcuni scienziati hanno analizzato quale sarebbe l'impatto dell’esercizio fisico nell’accesso tramite autenticazione EEG, scoprendo che l'affidabilità si degrada subito dopo un allenamento fisico. Altri fattori possono variarne la risposta, tipo la fame, lo stress, la distrazione, gli stati d'animo. Se fosse necessaria una maggiore precisione in diverse condizioni, si dovrebbe fare una campagna di raccolta di più onde cerebrali, costruendo modelli che contemplano una firma EEG quando si è sobri, un'altra quando si è stanchi, e così via.

Finale di speme. Molte volte si scherza dicendo che in futuro con la forza del pensiero saremo in grado di compiere certe azioni. Se però, oltre ad abilitare i nostri fedeli cyber-compagni, con quella stessa forza riusciremo anche a fare pensieri buoni per il nostro cuore e per quello degli altri, la tecnologia avrà aperto la strada per una umanità migliore. Oppure sto solo sognando.




PS : Ringrazio Beppe perchè leggendo il suo post mi è venuta facile l'introduzione di questo :-)


mercoledì 18 gennaio 2017

L'estetica ai tempi di Neanderthal


Nell'evoluzione della specie umana, restringendo il campo agli ultimi quattro milioni di anni, si è passati dagli australopitechi, che avevano conquistato l'abilità di camminare su due zampe, oppure di costruirsi degli utensili di pietra, agli umani veri e propri, nei quali lo sviluppo cerebrale e del senso di sè ha portato ben altri traguardi. Tra essi, ricordiamo "in ordine di apparizione", l'homo erectus, l'homo neanderthalensis, l'homo sapiens. Sorvolando sull'erectus e su quanto ci sia rimasto oggi di sapiens, concentriamoci sull'uomo di Neanderthal, il cui nome deriva dalla valle di Neander, vicino Düsseldorf, dove furono ritrovati i primi resti fossili. La sua esistenza si colloca più o meno tra 200.000 e 40.000 anni orsono.

Se nell'accezione comune, l'uomo di Neanderthal si associa ad un cavernicolo tozzo, con spalle curve e praticamente animalesco, intento solo a sopravvivere, di recente la scienza sta scoprendo alcune novità che contraddicono questi pregiudizi preistorici. L'ultimo studio parla di una sua possibile ricerca dell'estetica, nel senso di distinguere la bellezza di certi oggetti. Difatti, secondo un'analisi condotta dall'Università del Kansas, in un sito archeologico croato è stato scoperto un pezzo di roccia calcarea diversa da quella tipica del posto, come se qualcuno l'avesse spostata lì solo perché gli piaceva. Pensate a quando siete in montagna o al mare e una pietra vi stupisce per colore e forma: che fate ? ve lo portate a casa. Il Neanderthal avrebbe fatto la stessa cosa, dicono gli antropologi.

Il sito è quello di Krapina Neanderthal, circa 40 km a nord di Zagabria. Le tracce rinvenute sono state datate intorno a 130.000 anni fa. La roccia oggetto dello studio era stata ritrovata più di 100 anni fa, insieme ad artigli d'aquila, composti a formare un rudimentale gioiello; in posti simili, sempre risalenti allo stesso periodo, alcuni archeologi avevano trovato conchiglie colorate in modo grezzo con dei pigmenti naturali. Nello specifico di quella roccia, è stato escluso che possa trovarsi nella grotta per altri usi, visto che non presenta danni o modifiche forzate dall'uomo. Facendo convergere vari dati, gli scienziati hanno desunto nuove caratteristiche dell'uomo di Neanderthal, lontane da quel primitivo musone ed incapace di provare sentimenti più tipici degli ultimi stadi dell'evoluzione. Dunque, alcuni di essi avevano iniziato ad incorporare oggetti simbolici nella loro cultura.

La grotta presso il sito Krapina è di roccia arenaria, così la roccia calcarea ritrovata era certamente di provenienza esterna. Durante la scoperta del sito, ad inizio XX secolo, nessuno degli oltre 1.000 oggetti catalogati aveva caratteristiche confrontabili con la calcarea, ma gli archeologi non l'avevano notato. Gli scienziati dello studio attuale credono che l'uomo raccolse la roccia da un luogo a pochi chilometri a nord di Krapina, dove sono noti affioramenti di calcare grigio simile a quello spostato. Ma la provenienza precisa non cambia la novità: il "sasso" era stato portato volontariamente dall'uomo nella sua grotta, senza che ne avesse una utilità specifica. Per dirla con parole a noi più consone, l'usufruttuario di quella dimora, dallo stile esageratamente rustico, probabilmente amava collezionare oggetti naturali e riportava tra le mura domestiche alcune pietre, diverse da quelle che era solito scalciare durante le passeggiate a pochi passi da casa.

In definitiva, cosa sappiamo realmente dei nostri avi ? tanto, ma poco rispetto a cosa potremmo e potremo sapere. La storia dell'uomo ci riserva ogni tanto qualche notevole sorpresa come questa, che si può definire una sorta di primo approccio alla bellezza. Quanto ai pregiudizi, dobbiamo necessariamente usarli anche con i nostri simili così indietro nel tempo ?




lunedì 9 gennaio 2017

Un concorso per abitazioni marziane


Una volta era usanza chiedere ai bambini, tipo in età da scuola elementare, “cosa vuoi fare da grande?”. Nelle risposte si andava dalla semplice “il benzinaio” (che oggi non sarebbe neanche male), passando per “il dottore” (era già quello scafato che voleva giocare con l’ammalata…), fino a “l’astronauta”. Quest’ultima veniva da pargoli più ambiziosi, per vocazione o perché spinti da genitori visionari, i quali davano loro già cenni su NASA e dintorni, e magari sognavano i figli nelle capsule in partenza da Cape Canaveral. Ma, sogni a parte, l’ente spaziale americano è più vicino alla gente comune di quello che si pensa. E, a volte, bandisce concorsi pubblici con premi milionari.

Centennial Challenges è un’iniziativa che la Nasa porta avanti dal 2005 per coinvolgere i cittadini sugli ultimi sviluppi tecnologici. E forse per risolvere alcuni problemi, tant’è vero che nelle edizioni passate pare abbiano ottenuto un'ondata di soluzioni creative, provenienti sia dal mondo accademico che da inventori improvvisati, oltre che da piccole imprese. Si è arrivati così a tecnologie come lander lunari, ascensori spaziali e speciali guanti da astronauta. L’ultima sfida prevedeva di progettare e costruire piccoli satelliti autonomi, di forma cubica, per speciali operazioni intorno alla luna.

L'attuale competizione richiede la creazione di habitat completi stampati in 3D, con un occhio a come la cosa potrebbe essere attuata sul pianeta Marte, voce molto sostenuta nei programmi Nasa del futuro prossimo (qui avevamo discorso di come potrebbe essere l'alimentazione lassù). L'obiettivo è quello di essere in grado di "stampare" una grande struttura, atta a contenere un intero ecosistema, utilizzando materiali indigeni o riciclati. Si vuole infatti riuscire a inviare nello spazio solo la macchina di stampa e non la materia prima. Ed è una differenza non da poco, dato che in luoghi particolarmente difficili o costosi da raggiungere, tipo il pianeta rosso, ogni chilogrammo di peso risparmiato nel trasporto è prezioso.

Il concorso prevede tre fasi. Nella prima, terminata entro il 2015, alcuni team hanno sviluppato degli habitat innovativi sia dal punto di vista architettonico che riguardo la loro producibilità tramite la tecnologia 3D. La seconda fase, quella attuale con montepremi di 1,1 milioni di dollari, prevede la maggiore creatività per ciò che riguarda la fabbricazione di componenti strutturali, partendo da una combinazione di materiali locali e riciclabili. E capite bene che quando si parla di materiali locali marziani la sfida non sarà una passeggiata. Questa fase verrà gestita e coordinata con la prestigiosa università di Bradley, dell’Illinois, e con un gigante mondiale della meccanica, la Caterpillar. Nella terza ed ultima fase si procederà con la stampa 3D vera e propria dell’habitat progettato, ma in scala ridotta. Qui il montepremi è ancora più ricco, pari a 1,4 milioni di dollari.

La NASA potrà utilizzare queste tecnologie come supporto ai futuri esploratori umani su Marte. Sulla Terra, queste stesse funzionalità potrebbero essere utilizzate anche per la produzione di alloggi a prezzi accessibili, oppure quando l'accesso ai materiali da costruzione tradizionali o alle competenze progettuali sono limitati. Dunque, vengono combinati ambiti espressamente futuristici  con temi sociali, ossia portare abitazioni in luoghi remoti e poveri della Terra. Il concorso è aperto ad aziende statunitensi ma, udite udite, anche a cittadini di ogni nazionalità del globo (tranne appartenenti a stati particolarmente “istrionici”, tipo Nord Corea, per intenderci). Cosa aspettate ad iscrivervi ?