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mercoledì 21 dicembre 2016

Le sforbiciate di Natale


Da quando certi buontemponi americani hanno ideato i social network, l'amicizia reale e quella virtuale si sono mischiate, contaminate, confuse, direi. E pericolosamente pure. Alcuni canoni delle due tipologie di questi sentimenti sono comunque distinti. Volete mettere una stretta di mano vera con un "ciao" più emoticon su facebook ? oppure un abbraccio sincero e caloroso in confronto ad un "ti sono vicino" scritto giusto per ? O ancora, un sonoro vaffa (in Grillo style) detto dal vivo a pieni polmoni, rispetto ad uno trasmesso via adsl ? E' inutile, se dico che l'amicizia reale prevale alla grande su quella social, faccio un po' la figura del Catalano ai tempi di "Quelli della notte". Ma, e qui viene il bello, c'è un grande vantaggio ad usare twitter, facebook, google+, e così via, che la vita reale non ha, oppure lo ha in misura più ridotta. Esiste un tastino che, una volta cliccato, ci fa sentire più leggeri, vivere più in sintonia con noi stessi e con le nostre (poche) convinzioni. Basta un tocco del mouse, una ditata sul touch e la vita torna a sorriderci. Avete capito cos'è ?

Esci dal social ? No, non intendo questo. Se qualche volta lo avete fatto, ne avete sentito la mancanza. Non me la date certo a bere. Ma vi è mai capitato di rimuovere un contatto ? di non seguire più qualcuno ? Su, ragazzi, siamo tutti adulti. Per qualsiasi motivo sia accaduto, vi capisco. E' un atto liberatorio che significa "qui posso tagliare con quello, chi la vede più quella quando mi collego, non leggo più le sue ca...volate, non commenterà più inutilmente sotto i miei post, offuscandone l'originale bellezza..... Esci dalla mia vita, buono/a a nulla!" (perchè i veri buoni a nulla sono sempre gli altri, lapalissiano). E' cinismo questo ? no, solo un virtuale libero arbitrio che nella realtà non potete esercitare. Tanti lo avranno fatto, ne sono sicuro, magari senza il preavviso di certi personaggi che (giuro) hanno scritto testualmente "se vedete ancora questo post vuol dire che non siete tra quelli che ho cancellato dai miei contatti. Sapete, oggi era giorno di pulizie....".

Ma io non ho avuto l'ardore di digitare tutto ciò. Non ho questa cattiveria dentro di me. Non fino a questo punto. Al limite cancello e basta. Un bel taglio e via. Dobbiamo pure sbandierare ai quattro venti ciò che stiamo facendo ? mica c'è l'obbligo di scrivere tutto quello che si fa ! Ops, questa è una mezza verità: si va in vacanza e si postano le foto, si mangia un piatto speciale e si fa venire l'acquolina in bocca a tutti, partecipiamo ad un evento esclusivo e lo spiattelliamo alla grande. Come diceva quel tizio, chi è senza peccato scagli il primo sasso. Tornando al punto, mi è successo alcune volte di dover rimuovere, di non seguire più, qualche soggetto, facendolo molto a malincuore (sul "malincuore" credeteci, basta un piccolo sforzo). Magari il gesto impulsivo rischia di aver un minimo di contraccolpo psicologico (come l'avrà presa?), ma basta qualche giorno (minuto, volevo dire) e siamo più rilassati.

Voi avete tagliato i ponti con degli amici nella vita reale ? bravi i cattivoni, i senza scrupolo, i freddi e cuoredipietra. A me non è riuscito. Ma sui social, bè, lì è tutta un'altra storia. Insisto: se io vivo un momento particolare, c'è una che continua a scrivere cose che in questo periodo proprio non sopporto, che faccio, continuo a trovarmela davanti tutte le volte che mi collego ? neanche per idea. Sono libero di rimuovere e rimuovo. Stop. Power to the (disconnecting) people. Una volta (zitti però) ho tagliato un follower che poi se l'è presa. Mi ha chiesto il perchè, citando la sua dignità. Cheeeee ? signori, ma ci rendiamo conto ? Altra situazione: integralismo selvaggio su certi argomenti e presunzione di avere una visione più ampia della mia. Un taglio anche stavolta.

Vi starete chiedendo: alla faccia che educazione, che buongusto, che digital-empatia. Vi assicuro che nella vita vera sono diverso. Ma solo perchè non esiste quel tasto. E va bene, qualche volta mi è accaduto di mandare a quel paese delle persone (poche, per una volta sono sincero), ma l'ho fatto con garbo. E il garbo costa, va pesato con i toni, le misure, le parole per far capire. Porta agitazione, sudori, ci vuole coraggio a guardare in faccia chi si riceverà il nostro goodbye. I social hanno queste sfumature ? fortunatamente no. E allora, regalatevi anche voi per questo Natale qualche bella sforbiciata. C'è quello che da tempo vi assilla con assurde richieste, c'è quell'altra che vi fa l'occhiolino ma che non vi va a genio; ancora, un bel gruppo che vi sembrava adatto a resuscitare remoti interessi si è rivelato un disastro? via il primo, la seconda e pure il gruppo (che sicuramente non sentirà la vostra mancanza). Diciamola tutta, è un gesto che ci fa bene, ci fa guardare con serenità la nostra timeline. Proprio in questi tempi in cui si leggono spesso slogan tipo "vogliatevi bene", "curate innanzitutto voi stessi", come fare a non prendere al balzo siffatti suggerimenti e a non cestinare uno o più follower insopportabili ?

Sono sicuro che incontrando il malcapitato per strada, se risiede dalle vostre parti, non vi darà nemmeno la soddisfazione di fare l'offeso. Buon per voi.
Felice Natale ai provetti sarti !





PS Ho giocato scherzosamente solo per uno svago letterario. Deponete le forbici, indossate un sorriso. Tanti Auguri a tutti !

venerdì 9 dicembre 2016

Illuminare la notte sull'Himalaya


Nel villaggio di Photoksar, appartenente alla regione Ladakh dello stato indiano, un impianto solare finanziato dal governo centrale ha elettrificato molte case, alcune delle quali oggi affittano camere agli escursionisti di alta quota. Ma la disponibilità energetica è in generale scarsa, dato che circa la metà della popolazione della zona vive senza elettricità. Dove però la mano dell’uomo non arriva la natura regala risorse importanti: sono aree in cui l’irraggiamento solare per metro quadro è superiore del 25% rispetto alla media nazionale indiana a livello del mare. Al riguardo qualcuno ha osservato che i componenti di un impianto fotovoltaico di tipo domestico sono alla portata economica di molti, risultano affidabili e piuttosto efficienti, anche nel tempo, se la manutenzione viene fatta correttamente.

Di recente una missione coordinata dal gruppo Global Himalayan Expedition (GHE) ha portato alcuni ingegneri a Leh, la città più grande della regione Ladakh, che si trova in un deserto d'alta quota, circondato da cime frastagliate e vertiginose. La loro destinazione finale era il monastero buddista di Gompa nel remoto villaggio di Lingshed, circa 225 chilometri da Leh e quasi ad un giorno di “passeggiata” dalla strada rotabile più vicina. In sei giorni sono riusciti, dopo tanta fatica, ad installare 14 microreti (microgrid per gli amanti degli inglesismi) a energia solare in tutto il monastero e in una scuola elementare vicina. Con grande soddisfazione hanno portato la luce dove le principali fonti di illuminazione artificiale erano candele e lampade a cherosene. E l’hanno fatto usando una fonte sostenibile e affidabile di energia elettrica.

Ogni microrete comprende un pannello da 250W di potenza, due batterie da 12V a forma tubolare al piombo (somiglianti alle comuni batterie da auto) appositamente progettate per sistemi solari, più una trentina di lampadine a Led da 3W (equivalenti alle tradizionali ad incandescenza da 25W).  Utilizzando la corrente continua piuttosto che la corrente alternata si ha un passaggio diretto dall'energia ricavata dal sole verso quella utilizzata dalle lampade, senza perdere efficienza nella conversione. Infatti i pannelli solari generano energia elettrica in corrente continua (quella del + e – di una pila), ma solitamente perché ne possiamo usufruire è necessaria trasformarla in alternata (quella che attingiamo dalle prese di casa).

Ognuno dei tecnici di questo viaggio è un volontario che ha aderito ad un programma dello IEEE Smart Village, ente dell’IEEE (Institute of Electrical and Electronic Engineers) che supporta progetti mediante fonti rinnovabili per comunità isolate nelle zone povere del mondo, e partner di GHE su diversi impianti in Himalaya. Alcuni dei volontari avevano già lavorato su progetti umanitari simili, ma questo ha implicato molta più applicazione manuale e condizioni di vita disagiate. Piuttosto che dirigere squadre di operai, hanno personalmente issato i pannelli fotovoltaici sui tetti, sistemate le intelaiature con blocchi di cemento, collegato i pannelli alle batterie, cablato stanze, scale e corridoi per avere centinaia di punti luce.

Non sono mancati gli assistenti durante le fasi di installazione. Sia i monaci che gli studenti hanno dato volentieri una mano, insieme a degli elettricisti locali, grazie ai quali si effettuerà la manutenzione e si istruiranno i residenti di Lingshed alle riparazioni di base. Lo IEEE Smart Village ha finanziato l’intero hardware delle microreti, ma la proprietà collettiva passerà al villaggio. Ogni famiglia depositerà un canone mensile in un cassa condivisa per coprire la manutenzione ed eventuali espansioni. Se invece qualcuno vorrà installare un televisore o altri dispositivi non previsti inizialmente dovrà comprarseli in autonomia.

Mentre la maggior parte del team si è instancabilmente adoperato presso il monastero, altri tecnici si sono diretti verso una zona più bassa per installare un'altra parte del progetto: un laboratorio informatico per gli studenti, con un collegamento satellitare per l'accesso ad internet. Alla fine, è stato realizzato anche un piccolo centro di innovazione himalayana. Così, da una sera all’altra, oltre alle luminosissime stelle della zona si sono aggiunte le luci a led dell’energia solare. Ancora più luminose. Artificiali ma più utili. Dicono che sia stata un'emozione per tutti, soprattutto per gli ingegneri. Sono tornati a casa con un'esperienza indimenticabile, con la netta sensazione di aver ricevuto dal punto di vista umano più di quello che avevano dato. Perchè, e forse stenterete a crederlo, anche gli ingegneri hanno un'anima.



lunedì 28 novembre 2016

Alcol e rischio ictus, sempre vero ?


Attenzione, questo articolo potrebbe causarvi problemi di salute, se continuate la lettura ve ne assumete tutte le conseguenze. Già il fatto che riguardi le bevande alcoliche potrebbe farvi sentirvi inebriati, se poi arrivate in fondo, io non risponderò di alcuna conseguenza.

Forte come incipit, vero ? Bè, non sapete quanto lo è il resto. Scherzi a parte, quando si parla di alcol non possono non venire in mente i numerosi effetti collaterali. Li conosciamo tutti. La nostra salute è grata a quella parte di noi che si limita a bere quel quantitativo "epaticamente" e socialmente accettabile. Per venire all'argomento del giorno, tra le numerose ricerche scientifiche che correlano il consumo di alcol alla maggiore probabilità di avere un ictus nessuna fin'ora aveva indagato gli effetti specifici verso i differenti tipi di ictus. Ci hanno pensato i ricercatori del Karolinska Institutet, in Svezia, in collaborazione con i colleghi dell'Università di Cambridge, nel Regno Unito.

Tra le principali forme di ictus si distinguono quello ischemico, causato da coaguli di sangue che bloccano e danneggiano le arterie cerebrali, da quello emorragico, che si verifica quando un vaso sanguigno indebolito si rompe e sanguina: può accadere nell'encefalo (emorragia intracerebrale) oppure, meno frequente, nell'interspazio tra due membrane che circondano il cervello (emorragia subaracnoidea). La nuova ricerca ha portato alla luce una importante novità: fare un uso moderato di alcol, l'equivalente di due bicchieri di vino al giorno, è associato a un minor rischio di ictus ischemico, mentre non sembra avere alcun effetto positivo sulla probabilità di ictus emorragico. Se invece l'uso non è moderato su tutte le forme di ictus gli effetti sono decisamente negativi. Bella scoperta, direte.

Per giungere a tali risultati, i ricercatori hanno condotto una meta-analisi di 25 studi con i dati relativi ad ictus ischemici, emorragie intracerebrale e subaracnoidea. Per inciso, si parla di meta-analisi quando si ottengono dei risultati da diversi studi clinici, miranti ad ottenere un unico indice quantitativo, con il quale si possano trarre conclusioni più forti di quelle ottenibili da ogni singolo studio. Nel campione totale erano compresi circa 18000 casi di ictus ischemico e circa 4500 casi di emorragico. Il consumo di alcol in tutti gli studi è stata valutato con un questionario e normalizzato rispetto alle varie bevande alcoliche. Si sono così ottenute quattro categorie di esposizione all'alcol, suddivise in leggera (meno di un bicchiere al giorno), moderata (da uno a due bicchieri), alta (da due a quattro) e pesante (più di quattro bicchieri al giorno).

I dati hanno evidenziato una correlazione piuttosto importante tra uso di alcol e ictus di tipo emorragico, rispetto a quella meno marcata con l'ictus di tipo ischemico. Gli scienziati hanno comunque sottolineato che, trattandosi di meta-analisi, le conclusioni circa l'effetto pseudo-benefico dei due bicchieri di vino potrebbero essere state sopravvalutate, a causa delle piccole dimensioni del campione di alcuni degli studi inclusi. Si tratta perciò di una associazione che può aprire altre vie di ricerca, ma non deve essere presa alla lettera, dato che non sono stati considerati fattori determinanti tipo l'età, il sesso, il fumo, l'indice di massa corporea e l'eventuale presenza di diabete.

Voi direte: a che servono studi del genere, con i relativi sprechi di fondi ? (qui credo siano privati, ma se fossero pubblici ?). A volte me lo chiedo anch'io. Però, dovete sapere che quando si arriva a risultati scientifici eclatanti, a scoperte nel campo della medicina con un grande impatto sociale, come questo che lega alcol e salute, ci viene mostrata solo la punta dell'iceberg. Sotto c'è una massa di ricerche, piccole e grandi defaillance, vari lavori "sporchi" che da soli potrebbero non contare niente ma sono uno della miriade di granelli che si compattano fino a raggiungere traguardi importanti.

Quanto alla vostra salute, ora che siete arrivati qui e state ancora bene, potete tirare un sospiro di sollievo. Tranne quelli più birichini che, alla prossima ramanzina di un genitore / figlio / parente / amico sul loro facile alzare il gomito, avranno da rispondere, con baldanza: dai, cosa sono due bicchieri, possono far bene al cervello ! 


lunedì 21 novembre 2016

Sparati in un tubo davanti al golfo Persico


Elon Musk è un tipo particolare. Dicono che i miliardari siano più avvantaggiati nel trovare soluzioni innovative. I loro capitali gli permettono di sperimentare, anche più volte, finchè scovano un nuovo prodotto o uno strabiliante sistema che un giorno stravolgerà la vita di noi comuni mortali. Oppure è solo intuito, o ancora è solo fortuna. Chiamatelo talento, intelligenza emotiva, chi più ne ha più ne metta: non cambia la sostanza. E' chiaro che avere le risorse non vuol dire centrare sempre i progetti giusti. Forse significa avere il potere di non divulgare certi fallimenti. Ma non divaghiamo.

Saprete sicuramente di chi sto parlando. Ha lanciato un progetto che porterà la gente comune nello spazio, ha fondato la Tesla, con le sue auto elettriche di lusso e con grande autonomia (ok, ne ho viste solo due fino ad oggi in giro), ha cofondato Paypal, il principale sistema di pagamento via internet al mondo. Poi tre anni fa gli è venuto il pallino di un nuovo mezzo di locomozione (la parola è arcaica ma mi piaceva il cortocircuito semantico): l'ha battezzato Hyperloop. Ha così affermato che, chiusi in una capsula e sparati all'interno di un tubo alla modesta velocità di 1200 km/h circa, si sarebbe potuti andare da San Francisco a Los Angeles in soli 35 minuti.

Ma come tutti i grandiosi progetti, ci vuole del tempo per farli funzionare. In più, realizzare come opera prima quella appena citata presentava qualche problemino. Ora, uno ricco sfondato come Musk avrebbe potuto pensare: "brevetto subito l'idea così è solo mia!". Manco per sogno. All'epoca della presentazione disse subito che il progetto era open  e quindi invitava ingegneri ed imprenditori a cercare soluzioni per metterlo in pratica. Sta succedendo in questi giorni. La società americana Hyperloop One (H1) e gli Emirati Arabi Uniti stanno per costruire il primo sistema Hyperloop. Dovrebbe partire tra pochissimo la realizzazione del nuovo sistema, per andare da Dubai ad Abu Dhabi. Si tratta solo di 160 km, con un'auto ci si mette un'ora e mezza, massimo due: i tecnici di H1 hanno promesso che ci vorranno solo 12 minuti.

Naturalmente H1 sta collaborando con le autorità di trasporto locali per valutare la fattibilità della costruzione di un sistema di tale calibro, non certamente semplice anche se fatto su una breve distanza. I tecnici statunitensi stanno pensando pure a stazioni di accesso e a veicoli dalle forme accattivanti. Infatti non è solo la velocità a strabiliare, ma tutta la piattaforma costruita intorno. La stazione (termine ampiamente riduttivo) si ispira ad un aeroporto futuristico, nel quale i viaggiatori sono prima fatti accomodare all'interno di scompartimenti da meno di dieci persone, e poi gli scompartimenti vengono accodati all'interno di una capsula. Questa forma un unico veicolo che può così partire per il rapidissimo viaggio. All'arrivo la procedura è inversa.  

E' positivo che si inizi a sperimentare, a far uscire idee, calcoli e business plan dalle quattro mura per applicarli sul campo. La cosa "simpatica" è che queste cose si fanno sempre dove regna lo sperpero, il superfluo, in un paese dove hanno fondato città dal nulla e sul nulla (non mi sto scandalizzando, è l'ennesima constatazione di una realtà di fatto). Potere dell'oro nero. Cosa succederebbe invece se fosse installato un Hyperloop nel belpaese ? a me scappa un sorriso. Ve le immaginate alcune nostre grandi città, sormontate da questi grossi tubi sulla testa della gente, magari anche con un design gradevole ? Li guarderemo fieri di aver raggiunto un traguardo della post-post-modernità.  Poi, appena gli occhi ricadranno sulle vecchie care strade, tra buche e immondizia, torneremo mesti alla realtà.





lunedì 7 novembre 2016

Un blog e i suoi perchè


Sono stato 19 giorni lontano dal mio blog. Nessun problema, qualche picco negli impegni, tutto sotto controllo. E questa potrebbe essere anche una piccola cattiva notizia, perché, come diceva Mario Andretti, “se hai tutto sotto controllo vuol dire che non stai andando alla massima velocità”. Ma non mi pare di avere la stoffa del pilota esasperato. Faccio del raziocinio il filo conduttore delle maggior parte delle mie azioni. Per il resto uso altri motori interni, e forse sono le migliori. Scherzi a parte, sono successe diverse cose in questi giorni. Su tutte, la natura che ha avuto diversi momenti di sfogo: l’energia accumulata in decenni, o anche più, si è scaricata a pochi km da casa. Così ci è capitato di ballare, senza nessuna musica, insieme alle nostre abitazioni. Parlo di quelle, più fortunate, sulla costa.

Io scrivo perché mi piace farlo. Credo l’abbiate capito. Non voglio affermare di essere molto diverso dalla media dei blogger, o tantomeno migliore. La mia è una professione tecnica, ma in merito a ciò faccio, nello specifico, non ho mai voluto approfondirlo nei miei post. Non so se per pudore, per non sembrare troppo saputo su un certo argomento, o al contrario per non scoprire, a causa del commento di qualcuno, di saperne meno di ciò che credo. O semplicemente perché un settore di nicchia avrebbe pochi lettori. Però ho notato che molti comunicatori del web tendono a girare intorno ad un argomento, sembrando cordiali e allo stesso tempo competenti, per arrivare ad un punto: “se vuoi saperne di più contattami, sono l’esperto che fa per te”. Logica corretta, ci mancherebbe: uno sa fare (bene) un lavoro e cerca di metterlo a disposizione del popolo della rete. Guadagnandoci, ovvio. 

Giusto per puntualizzare, nella mia vita lavorativa attuale mi occupo, in senso molto ampio, di mobilità, di trasporti. Che vuol dire tutto e niente. Per esempio, una volta avevo incontrato una persona che non vedevo da tempo e gli avevo comunicato il mio cambiamento professionale, da dipendente a consulente di trasporti. E lui “quindi ora hai un’agenzia viaggi ?”. Perciò, se qualcuno proprio insiste, posso dettagliare meglio come mi guadagno la pagnotta. Ebbene, tornando al blog, quanti articoli ho postato, in questi quasi 2 anni e mezzo di onorato servizio “bloggistico”, sul tema mobilità ? li ho contati, solo 4 (su 132). Avevate intuito che mi occupassi di questa materia ? Io dico di no.

L’affetto per le cose tecnologiche me lo porto dietro da tempo come un marchio. A volte, quando ero ragazzo e mi trovavo in casa di persone poco avvezze a certi dispositivi, immediatamente venivo indicato come quello adatto a supportare il malcapitato, oppure, peggio ancora, a dare una certa risoluzione a problemi tecnici. Questi comportamenti si erano moltiplicati quando avevo scelto gli studi ingegneristici. All’inizio poteva farmi piacere, poi alla lunga la cosa mi scocciava. Invece per la scienza c’è stata sempre una passione, a volte latente, a volte un po’ più espressa, che però per causa di forza maggiore si era acquietata nel tempo. Poi, grazie ad un corso di comunicazione scientifica di qualche anno fa, si è nuovamente riaccesa. Se a questi due argomenti aggiungete “quisquilie e pinzellacchere”, siete giunti alla testata del blog che leggete qualche riga più su di questa. 

Oggi, come avrete compreso, era la volta di quisquilie e pinzellacchere. Gli estimatori del principe De Curtis sanno che ho preso in prestito da lui questi due termini. Mi sono serviti per inquadrare, in un blog dal carattere all’apparenza freddo e distaccato, quello dei laboratori scientifici o delle scoperte innovative, alcuni pochi momenti di libera fuoriuscita dei miei pensieri. Lo so che probabilmente non morivate dalla voglia di tutte queste spiegazioni. Vi ho “usato” perché dopo quasi 3 settimane di silenzio, sentivo il bisogno di romperlo. Spero mi perdonerete. 

(nella foto: vista verso lo Stelvio dal forte militare Venini di Oga)

martedì 18 ottobre 2016

La crescita tecnologica negli USA sottrae posti di lavoro ?


L’annosa questione dei posti di lavoro “rubati” dall’automazione delle fabbriche ha i suoi cicli storici. E al solito si alternano pro e contro, ogni volta con le testimonianze del momento, a causa di una delle ultime dirompenti tecnologie che, oltre al business smisurato di chi le vende, possono avere come effetti collaterali dei significativi ridimensionamenti aziendali.

Dopo la fine dello strapotere nipponico nelle tecnologie consumer evolute, nell’ultimo decennio gli Stati Uniti sono tornati a padroneggiare. In questo paese, democratico fino ad un certo punto e talmente ampio da ospitare numerose contraddizioni, qualcuno ha fatto i conti in tasca alle recenti major dell’informatica e di internet, conti relativi non solo al loro fatturato da capogiro, ma anche al numero di dipendenti. Risultato ? dopo l’impennata di assunzioni degli anni ’90, dal 2000 in poi l'occupazione di lavoratori in tale comparto è scesa di oltre il 40%, anche se una piccola parte di posti di lavoro è stata riassorbita da altri settori tecnologici. Questo risultato è ben lontano da ciò che molti leader politici e imprenditori del posto avevano previsto una generazione fa. Nel 2000 Clinton & co avevano parlato del fermento che sarebbe derivato dai rapidi cambiamenti tecnologici, contribuendo ad uno dei motori principali dell'economia degli USA. Oggi, che è accaduto quasi il contrario, si è arrivati ad un malcontento nazionale, con il quale si spiega l'ascesa di certi soggetti, quantomeno viscidi, come un certo Trump. In un paese in cui si è sempre cresciuti a pane e sviluppo, l’ultima generazione ha notato l’assenza dei progressi vissuti dai loro genitori e nonni, con la conseguente frustrazione facilmente trasportabile sui ring politici.

Si potrebbero citare innumerevoli casi di big company statunitensi, che hanno avuto un trend positivo nell’occupazione dai primi anni ’90 fino ai primi 2000, per poi invertire rotta e continuare ad avere buoni ricavi con sempre meno persone. Una di questa è stata la Micron Technology, grosso nome per i circuiti integrati a semiconduttore, tra l’altro con diverse sedi in Italia; a questa va aggiunta l’azienda della mela morsicata, che dopo la scomparsa del genio di Jobs, ha sempre più spostato l’assemblaggio degli smartphone in Cina, pur riprendendo a produrre alcuni Mac in Texas. Un’altra, notissima, è stata l’IBM, che ha visto diminuire di 2/3 i dipendenti in uno storico stabilimento della contea di Broome. 

Estendo il discorso a livello globale, esiste un altro problema, che può essere annoverato tra le cause del minor uso di risorse umane, strettamente legato alla crescente delocalizzazione della produzione tecnologica. C’è stato un punto di rottura, diversi anni fa, quando chi progettava si era reso conto della possibilità di minimizzare le tipologie di hardware a disposizione e generare una miriade di prodotti diversi, semplicemente personalizzando il software. Questa filosofia, molto vantaggiosa per i capitani d’impresa, non avrebbe mai avuto un ritorno positivo per certe categorie di lavoratori. Molti infatti andavano affermando che una soluzione alle fabbriche automatizzate era la riqualificazione degli operai. In questo senso la logica avrebbe funzionato se, introducendo una o più macchine, le persone avessero perso un po’ di manualità acquisendo invece dimestichezza e competenza con l’uso, la programmazione e la manutenzione delle stesse. Così non è stato, perchè l’aver diminuito le tipologie di “ferraglia”, le cose tangibili che possono uscire dagli stabilimenti, ha portato ad esasperare la globalizzazione: poca differenziazione nelle piattaforme hardware ma moltissimi numeri, ottenuti a buon costo in estremo oriente, tra i quali a creare il valore aggiunto della personalizzazione sarebbe stato il software realizzato invece in casa, vero componente di qualità di ogni prodotto tecnologico. E voi vi immaginate un ragazzo di 50 anni, che ne ha passati 25 su una linea di assemblaggio componenti, a sedersi davanti ad un pc, sul quale è appena partita l’ultima versione di Visual Studio (*), pronto a programmare ? Come si poteva pensare di far passare un dipendente in tempi ragionevoli da un lavoro estremamente pratico e ripetitivo, ad uno concettuale ed astratto ?

E tutto questo fiorire di trovate, che avevano ed hanno solo il business come fine ultimo, cosa ha comportato ? quello che gli economisti chiamano il fenomeno dello skill-biased technical change, ossia il cambiamento tecnologico avviluppato intorno alle abilità: la crescita economica maggiore si sviluppa in quelle poche persone/aziende che con abilità, fortuna (e altro) si sono meglio destreggiate per sfruttare le nuove opportunità, lasciando per ultima la salvaguardia dei lavoratori. Tradotto in numeri si ha che le cinque aziende tecnologiche più grandi degli USA,  Apple, Alphabet, Microsoft, Facebook e Oracle Corporation hanno un complessivo valore in borsa di circa 1.8 miliardi di miliardi di dollari. Il che corrisponde all’80% in più rispetto alle cinque aziende top nel 2000, che naturalmente non erano queste; ma a fronte di tale incremento la somma totale dei lavoratori in quelle cinque grandi “sorelle” vale il 22% in meno rispetto ai loro predecessori.

Poi, per tornare a casi più pratici, possiamo citare la situazione di Amazon, il maggior distributore online al mondo, dove già lavorano dei robot per sistemare le scatole negli immensi impianti di logistica. Almeno quelle più grosse, visto che l’umanizzazione di tali macchine non consente di maneggiare agevolmente pacchetti di dimensioni più ridotte. Ancora no, visto che il team di ingegneri di Amazon sta provando a far a meno anche dei dipendenti con queste mansioni. Per non dire dei droni che faranno consegne: addio postini e corrieri. Altro caso eclatante è quello dell’azienda Knightscope, con sede in California. Lì producono dei robot che fungono da guardiani notturni. Alcuni esemplari sono già in funzione, fanno delle vere e proprie pattuglia di sorveglianza, in centri commerciali e campus aziendali. Si spera siano meno cattivi dei Terminator cinematografico, ma al momento si sa solo che i costi del noleggio sono ridicoli, 7 dollari l’ora. E gli ideatori hanno ritirato fuori il solito disco :"I robot non si lamentano, non si stancano, non bisogna prevederne la pensione".

Magari un giorno invece si svegliano e la pretendono anche loro, la pensione. Saranno in fila alle poste a fine mese. Diventerà il più grottesco dei traguardi.



(*) Il Visual Studio è un ambiente di programmazione per computer e dispositivi mobili, che comprende diversi linguaggi e modalità, qui una breve descrizione per i più curiosi.

mercoledì 12 ottobre 2016

Invidiosi, non siete soli al mondo !


E' ufficiale, il carattere dell'invidia nell'umana specie è quello predominante. Lo sapevate già ? Certo, è la classica scoperta dell'acqua calda. Ma ora vi è qualche fondamento scientifico a decretarne una maggiore sicurezza, fondamento che viene fuori da uno studio dei ricercatori della università Carlo III di Madrid, condotto con i colleghi delle università di Barcellona, Saragozza e di Rovira i Virgili. Lo studio ha analizzato le risposte di 541 volontari per centinaia di dilemmi sociali, le cui opzioni portavano alla collaborazione o al conflitto con gli altri, sulla base di interessi individuali o collettivi. Si calmino però i disfattisti: la percentuale degli invidiosi risultata è solo del 30%, non altissima ma comunque la maggiore rispetto alle altre categorie di atteggiamento sociale in cui i volontari sono stati suddivisi.

Il lavoro fatto si è basato su una particolare sezione della matematica chiamata teoria dei giochi, che si applica bene in ambiti come la sociologia e l'economia. In sostanza, i partecipanti devono prendere delle decisioni in certe situazioni, e vengono accoppiati ogni volta con una persona diversa, affinché il comportamento ne sia condizionato. Così ognuno di loro può decidere di collaborare con il suo partner temporaneo, di opporsi alla sua scelta, o di fare il doppio gioco fingendo di starci e poi scegliendo una soluzione diversa al problema che gli è stato posto. Aumentando il numero di prove, viene fuori la vera indole dei giocatori, ossia di come sono inclini  a comportarsi e relazionarsi con gli altri.

Grazie ad un complesso algoritmo, i ricercatori sono riusciti a classificare il 90% dei partecipanti in quattro gruppi, in ordine decrescente: 30 % composto da invidiosi, ai quali non importa il risultato, ma solo arrivare prima degli altri; 20 % di ottimisti, i quali stimano che il partner momentaneo darà sicuramente buoni frutti; uno scarso 20% di pessimisti, che hanno fatto delle scelte solo perché meno peggiori di altre; i restanti, anche questi poco meno del 20%, definiti come fiduciosi, quelli che puntavano alla cooperazione e alla sinergia, a prescindere dall'esito finale. Dalle categorie l'algoritmo ha tralasciato un 10% (o poco più) di volontari, non abbinabili nettamente ad una delle quattro, a sottolineare come le sfumature nei comportamenti possono essere notevoli.

Secondo gli studiosi l'algoritmo ha prodotto un'eccellente valutazione proprio perché ha scovato un numero ben definito di personalità predominanti. E l'ha fatto senza un'influenza e una soggettività di giudizio tipicamente umane. La sua applicazione all'analisi comportamentale è quasi rivoluzionaria, dato che in altre occasioni la suddivisione dei tipi era affidata all'esperienza degli scienziati sociali che organizzavano questi esperimenti, lasciando poi l'abbinamento all'intelligenza artificiale. "L'obiettivo di utilizzare la matematica era proprio quello di garantire l'imparzialità ", ha detto il dottor Sánchez, uno degli autori.

I risultati ottenuti vanno contro quelle teorie storiche che vedono la ratio prevalere nella maggior parte delle scelte umane (anche se ultimamente, a livello mondiale, di ratio se ne usa sempre meno), pertanto potrebbero essere utili quando si disegnano delle nuove politiche economiche e sociali. Futuri sviluppi, di tutt'altra natura, si prevedono addirittura per dare un carattere più umano ai robot di domani, quelli che, a quanto pare, ci faranno compagnia tra le mura domestiche. Potranno mai batterci quanto ad invidia ? Non credo proprio.


(fonte https://www.eurekalert.org/pub_releases/2016-10/ciuo-aso100716.php ; si ringrazia il sito http://www.tips2stayhealthy.com/ per la gentile concessione della foto)



mercoledì 5 ottobre 2016

Cosa mangeremo su Marte ?


Sembra che le risorse sulla Terra saranno sempre meno in funzione del crescente numero di abitanti del pianeta. Da tempo si va parlando di ottimizzare, efficientare, sostenibilizzare, decrescere felicemente. Oppure, emigrare altrove. Comunque è tutto vero. Come sapete (o se siete tra quelli che non ci credono, peggio per voi) tra qualche decennio arriveremo a scannarci per acqua potabile e cibo old style. Se dell’acqua non possiamo farne a meno, per il cibo new style alcuni credono che ci ritroveremo a mangiare insetti in tutte le salse. E allora ? Emigrare altrove, si diceva. Su Marte ? lontanuccio ma probabile. E lì, di grazia, cosa si mangerà ? Per non essere impreparati sul tema, alcuni ricercatori stanno provando a coltivare piante in condizioni simili a quelle del pianeta rosso.

E' impossibile pensare che nella remota possibilità di colonizzare Marte ci si possa portare le provviste per anni e anni. Così bisognerà pensare a come far crescere dei vegetali su un terreno arido ed ostile, privo di acqua indigena e soprattutto con un atmosfera poco amichevole. Per questo alcune prove sono in atto nei laboratori del Florida Institute of Technology, dove è ai primi vagiti un orto molto rudimentale che potrebbe attecchire lassù. In collaborazione con il College of Aeronautics e il Department of Physics and Space Sciences, gli scienziati stanno facendo crescere un tipo di lattuga rossa in tre habitat diversi: un terreno “nostrano”,  un materiale che simula il terreno superficiale marziano, detto regolite marziano, più quest'ultimo con l'aggiunta di sostanze nutritive, al fine di trovare la giusta alchimia nel sostentamento della pianta. Per inciso si chiama regolite, e vale anche per la Terra, quella zona intermedia tra roccia madre e terreno superficiale, ottenuta nel medio-lungo periodo dal disfacimento della roccia sottostante, mescolati ad altri detriti di varia origine.

A differenza del suolo terrestre, il regolite marziano non contiene materia organica ed ha un minor numero di minerali, mentre le piante hanno bisogno di venire su con fosfati e nitrati. Esso è inoltre dannoso allo stato puro, sia per le piante che per gli esseri umani, a causa di un alto contenuto di cloro. Ora, ciò che si usa in laboratorio al posto del regolite ha qualche difetto. Del resto un campione vero di quel materiale sarà disponibile, se tutto va bene, non prima di 15 o 20 anni, al ritorno della prima missione su Marte (che deve ancora partire). Quindi i ricercatori del Florida Tech stanno cercando di creare un regolite più vicino possibile all’originale, utilizzando i dati del rilevamento chimico inviati dal rover che ha fatto capolino lassù.

Intanto continuano le collaborazioni importanti al riguardo. Una su tutte, quella con gli scienziati della NASA che hanno esperienza di coltivazione vegetale sulla Stazione Spaziale Internazionale. Una nuova civiltà dovrà comunque imparare a sostenersi da sola, vista l’esperienza della Terra, dal futuro poco roseo, e dato che le risorse di partenza sul pianeta rosso sono vicine allo zero. Chiaramente prove del genere non possono essere esaustive. I ricercatori prevedono infatti di esporre il loro orto sperimentale ad altri fattori, come le radiazioni che incontrerebbe nel lungo cammino tra i due pianeti; oppure capire come avverrà la crescita delle radici con una forza di gravità meno impattante e quali quantitativi di acqua saranno necessari. Secondo il responsabile del progetto uno studio simile potrebbe avere un impatto positivo sugli attuali criteri di sostenibilità. "Imparare a coltivare le piante in un ambiente inospitale come Marte potrebbe aiutare a massimizzare la produttività alimentare e ridurre qui da noi al minimo l'utilizzo di risorse preziose come acqua e fertilizzante" ha affermato il professor Batcheldor.

Proiettando dunque la nostra alimentazione a circa 75 milioni di km da casa: di carne e di pesce non se ne parla proprio, far arrivare delle bottiglie di buon vino, che intanto saranno diventate una vecchia riserva, appare impresa ardua. Se i primi tentativi come questo sulla lattuga andranno a buon fine, i vegani hanno da star tranquilli. Noialtri, un po' meno.




martedì 27 settembre 2016

Regolamentare i prodotti per tatuaggi

 

Abbellire il proprio corpo e il proprio viso con colori e simboli è un'usanza antropologica che si perde nella notte dei tempi. Tra le varie tecniche, quella del tatuaggio assume un carattere particolare, sia perchè destinato a durare nel tempo, sia per i suoi risvolti sociali. Nel mondo civilizzato, però, dove tutto è soggetto a leggi e normative anche restrittive, qualcuno si è dimenticato di regolamentare le sostanze che i tatuatori iniettano nella pelle dei loro clienti. Infatti ad oggi non esiste una specifica norma europea sui tatuaggi e sui prodotti di trucco permanente o semi-permanente. Devono solo rispettare la direttiva CE 2001/95 sulla sicurezza generale dei prodotti, la quale afferma in sintesi che ogni prodotto venduto deve garantire dei requisiti minimi di sicurezza, per tutta la sua vita.

A parte i calciatori, per i quali le mode sono perlopiù esasperate, i tatuaggi stanno diventando sempre più popolari. In Europa il numero di persone tatuate è aumentato dal 5% del 2003 al 12% di quest'anno; in particolare tra i giovani, il 30% tra i 16 e i 34 anni possiede almeno un tatuaggio. Negli Stati Uniti, nella stessa fascia d'età, la percentuale passa al 40%. Com'è noto, essi vengono realizzati iniettando inchiostri colorati nella pelle e sono destinati ad essere permanenti, con conseguente esposizione prolungata, del derma e dei sottostrati cutanei, alle sostanze chimiche di cui sono fatti, oltre che agli eventuali derivati che si formano col tempo.

Anche per questo un nuovo rapporto del Joint Research Centre, il centro della Commissione Europea che si occupa di scienza e conoscenza, analizza la sicurezza e l'eventuale regolamentazione sul tema. Lo studio del JRC si propone di fornire le prove scientifiche necessarie per decidere come garantire la sicurezza degli inchiostri e dei processi utilizzati nei tatuaggi e nel trucco permanente. Infatti, tali prodotti contengono una combinazione di diverse sostanze, compresi un centinaio di coloranti e additivi, i cui pigmenti non sono creati specificamente per restare così a lungo sotto la pelle, e possono contenere delle impurità. Circa l'80% dei coloranti in uso sono prodotti chimici organici e più del 60% appartengono alla categoria dei cosiddetti pigmenti azotati, soggetti a liberare composti aromatici cancerogeni. Il tutto può essere facilitato dalla fisiologica degradazione della pelle, specie con l'esposizione ai raggi solari.

Si tratta comunque di supposizioni teoriche, dato che non ci sono dati sistematici in grado di definire gli effetti negativi sulla salute umana, oltre a quelli transitori dovute a infezioni batteriche per le micro-ferite, specie se la seduta avviene in posti poco puliti. In altre parole il rischio di cancro della pelle non è al momento né dimostrato, ma nemmeno escluso. Però, per una volta, c'è bisogno di far sopraggiungere il peggio prima di imporre delle misure cautelative? Così avranno pensato in Commissione Europea, visto che il report stilato dal JRC verrà utilizzato da parte della European Chemicals Agency (ECHA) per preparare una proposta di restrizione a questi prodotti, nel quadro del regolamento REACH. Il REACH (Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals) è stato adottato dall'UE, a partire dal 2007, per migliorare la protezione della salute umana e dell'ambiente contro i possibili rischi dovuti a sostanze chimiche, migliorando allo stesso tempo la competitività dell'industria chimica europea.

Quello del tatuaggio è uno sfizio che tempo fa stava per prendere anche me. Ma, dopo questa news, anche se mancano le certezze scientifiche, mi è passata completamente la voglia. E a voi ?




lunedì 19 settembre 2016

Preservare gli antichi linguaggi


Qualche tempo fa, alla veneranda età di 80 anni, mia madre ha pubblicato il suo primo libro. Non è mai stata una scrittrice e nemmeno le è venuta l’ispirazione tardiva. Oltre ad essere insegnante di scuola elementare, ha sempre avuto due passioni, quella per la musica, che ha trasmesso in modi molto diversi a me e a mia sorella, e quella per il dialetto. Per quest’ultimo ha spesso cercato significati, usi e costumi legati al vernacolo del suo paese di nascita, scavando in vari testi, raccogliendo citazioni e cercando etimologie recondite ed ancestrali. Finchè, spinta anche dai familiari, è riuscita a completare la sua opera prima proprio su questo argomento. Ora, non è che abbia venduto chissà quante migliaia di copie, ma pare che il suo tentativo di preservare e tramandare il dialetto e le relative tradizioni non sia il solo. Un signore dalle origini indiane (d’America) sta provando a farlo in modo tecnologico.

Le lingue hanno da sempre avuto periodi di evoluzione, interagendo con le culture e con i luoghi dove vengono parlate. Di recente linguisti e antropologi sono preoccupati sul fatto che certe lingue indigene stanno scomparendo, in modo molto rapido. All’UNESCO stimano che la metà delle 6.000 o più lingue del mondo non sarà più parlato entro il 2100, se non si interviene per invertire questa tendenza. Il ragionamento di base è che questi linguaggi non sono solo un modo di comunicare, ma offrono visioni e dettagli unici su chi li usava per esprimersi. E’ quasi impossibile apprezzare appieno una popolazione o un'etnia senza capire la loro lingua. Quando una lingua tace, si rischiano di perdere sia la saggezza che le informazioni di base di certi uomini del passato.

Nell'anno 2000, Joshua Hinson, un americano discendente dalla tribù nativa degli Chickasaw, appena nato il suo primogenito, si è reso conto che non aveva strumenti con cui insegnargli le sue vere radici e la sua cultura d'origine. Così, deciso a realizzare questo obiettivo, ha iniziato innanzitutto ad apprenderle approfonditamente per conto proprio. Gli era mancata un'esperienza vissuta da indiano, ed è partito con le basi: imparare la lingua. Poi, successivamente, ha provato ad insegnare ai bambini quella stessa la lingua, ma l'ostacolo principale era convincerli che valeva la pena di parlarla, visto che il tempo libero per loro era preso totalmente dalla tecnologia. Il signor Hinson non si è demoralizzato, piuttosto ha deciso di abbracciare la tecnologia come un'opportunità. Questa intuizione manca oggi a molti linguisti, i quali preferiscono scrivere documenti accademici e troppo tecnici per destare attenzione nei profani.

Con l'appoggio degli altri membri originari Chickasaw, è stato creato un vero e proprio programma di rivitalizzazione linguistica, partendo prima con un canale TV, poi con un sito web e un app per smartphone. Oltre ad insegnare l'alfabeto, le parole e le frasi essenziali, e i metodi per la costruzione di una frase, l'app contiene anche registrazioni in madrelingua per affinare la pronuncia e la cadenza. Questo è accaduto nel 2009 e da allora gli utenti sono solo aumentati. Naturalmente sono stati i più giovani, avvezzi al diteggio telefonico, a coinvolgere e suscitare l'interesse nei relativi genitori. Addirittura in alcune famiglie hanno cominciato ad usare termini di quella lingua indiana in casa, per individuare oggetti di uso comune, anche senza una sistematicità.

Non si può trattare comunque solo di un gioco, altrimenti dopo un po' ci si stancherebbe, hanno osservato alcuni moderni linguisti americani, molto propensi all'uso del digitale. In ogni caso, abbinare una lingua antica al nuovo modo di comunicare del XXI secolo, via smartphone intendo, può far superare il concetto secondo cui le lingue indigene appartengono solo al passato. Potrà quindi essere questo il modo di tramandare alle generazioni future quelle lingue, ma non solo dal punto di vista grammaticale, anche da quello della cultura e della storia, di quel passato dal quale veniamo e che non dovremmo mai dimenticare.

Per chiudere, non tutti i dialetti possono essere considerati lingue nel vero senso della parola. Ma è il loro uso come vettore di storie, individuali, familiari e di intere comunità, che va salvaguardato. Conoscerlo, comprenderlo, anche senza parlarlo correntemente. Intuirne le sfumature per apprezzare le radici così da non stravolgerle solo per effimere mode.


PS Se proprio volete togliervi la curiosità, questo il link su IBS del libro scritto dalla mia genitrice.




lunedì 12 settembre 2016

Uno smartphone per la prevenzione medica


Vi siete mai chiesti quante SIM attivate ci sono sulla Terra ? Anche se non è una domanda esistenziale ve lo dico lo stesso. Sette miliardi e 400 milioni all'incirca, praticamente una in media per ogni abitante del pianeta, delle quali poco più della metà sono inserite in uno smartphone. Un oggetto, questo, di grandissima diffusione e penetrazione, specie se si pensa alla velocità con cui si sono moltiplicati, cambiandoci la vita. E' forse uno dei motivi che spinge tecnici e ricercatori a trovarne usi ed utilità gratuite, sfruttando l'hardware di base a disposizione, oppure ottenibili aggiungendo un'app. In campo medico si tratta di una grande trovata, specie nei luoghi dove le possibilità di prevenzione e cura sono carenti ma abbondano quelle tecnologiche.

La fibrillazione atriale è un problema di salute presente nel 2% della popolazione mondiale, con un costo annuale nella sola Europa di circa 17 miliardi di Euro. I dati parlano di un 70% di ictus, dovuti a tale problema, che potrebbero essere evitati con dei farmaci preventivi. Il fatto è che essa si verifica spesso senza sintomi di preavviso, perciò le visite mediche periodiche possono non essere sufficienti. Ora, grazie ad uno studio condotto nel centro di ricerche tecnologiche dell’università di Turku , in Finlandia, si è verificata la capacità che può avere uno smartphone di rilevare la fibrillazione atriale, senza l’aggiunta di alcuna interfaccia. Lo studio ha incluso 16 pazienti affetti dalla patologia, ai quali sono stati aggiunti 20 pazienti sani: tutti questi dati sono stati utilizzati per validare l'algoritmo sviluppato.

Per rilevare la fibrillazione atriale, uno dei nostri "cari" dispositivi viene posto sul petto del paziente e si registrano le misurazioni di accelerometro e giroscopio, micro-sistemi già presenti nell'elettronica del telefono (sfruttate ad esempio nelle applicazioni di contapassi o per i software di navigazione). I dati acquisiti sono trattati con metodi di elaborazione multipli, e passati poi ad un algoritmo di apprendimento automatico. Nelle prove fatte è stata ottenuta una affidabilità del 95%, in altre parole lo scarto dovuto ad errore è molto basso. A regime ci si aspetta che, alla stessa stregua di come si fa oggi per i misuratori di pressione portatili che molti hanno in casa, dopo qualche sensazione di disturbo una persona potrà sdraiarsi, lanciare l'app, poggiare lo smarthphone sul proprio torace in corrispondenza del cuore e attendere l'esito della misura. Davvero semplice !

Spostandosi nel nuovo continente, I ricercatori dell'Università di Washington hanno sviluppato un’applicazione innovativa per rilevare l'anemia, la nota condizione causata da un basso numero di globuli rossi che trasportano l'ossigeno alle cellule. Si tratta di una patologia molto comune nei paesi poveri; l’OMS stima che circa due miliardi di persone in tutto il mondo sono anemiche. Anche in questo caso avere un dispositivo portatile eviterebbe lo spostamento in ospedale e abbasserebbe i costi delle strutture sanitarie, che spesso ricadono sui cittadini.

E’ stato scoperto che alcune fotocamere di smartphone riescono a misurare l'emoglobina catturando la luce che passa attraverso il dito di una persona. Per fare ciò c'è bisogno di un gruppo aggiuntivo di luci a led, oppure di una piccola lampadina a incandescenza, che vengono messi quasi a contatto del polpastrello, mentre dalla parte opposta vi è appunto la fotocamera. Il sistema è stato istruito a riconoscere variazioni di colore a seconda di come il sangue fluisce attraverso il dito, variazioni che potrebbero indicare una carenza di globuli rossi. I ricercatori hanno confrontato il loro originale test con uno simile commerciale, basato pure sui led ma senza smartphone: il risultato su 31 persone è stato praticamente lo stesso.

Un tale sistema sarebbe molto utile per i centri di donazione del sangue o per l'assistenza domiciliare. Ancora, le donne in gravidanza potrebbero monitorare il loro livello di emoglobina in modo del tutto tranquillo, senza doversi spostare. Naturalmente, deve essere chiaro che si tratta di uno screening del tipo anemia si / anemia no, dicono i tecnici statunitensi, non si può pretendere di avere la stessa accuratezza di un esame ematologico.  Per il futuro, sia nel caso della fibrillazione atriale che in questo dell'anemia il collegamento dello smartphone ad un servizio via Internet potrebbe costituire una banca dati di notevole interesse. In definitiva, due innovazioni mediche importanti a costo quasi zero e con diffusione capillare già garantita.




lunedì 5 settembre 2016

Il complesso caso delle batterie per veicoli elettrici


Negli anni '60 uno dei fondatori della Intel, il più grande costruttore di microprocessori sul globo, ricavò una legge empirica secondo cui la complessità dei circuiti integrati per l'elettronica sarebbe raddoppiata ogni 18 - 24 mesi. Si trattava di Gordon Moore e dell'omonima legge. Col tempo questa previsione è risultata corretta. Fintanto che la dimensione dei calcolatori era tale da non prevedere la loro portabilità, il poterli usare in movimento, la sorgente di alimentazione era semplicemente una presa di corrente. Quando invece c'è stato bisogno delle batterie, col passare degli anni e con il crescente bisogno di batterie più performanti, ci si è accorti che per esse la legge di Moore non è applicabile (ne avevamo già parlato qui alcuni anni fa). Questo vale sia per l'elettronica spicciola (smartphone, notebook, e così via), sia per alcuni mezzi di spostamento che, causa i cambiamenti climatici, stiamo cercando di sviluppare e diffondere quanto prima: i veicoli elettrici.

I migliori produttori di auto elettriche hanno raggiunto un limite nelle prestazioni delle batterie, circa il rapporto tra distanza percorribile in funzione del tempo di ricarica, che vale poco più di 1/2 km per minuto di ricarica. In altre parole, questi veicoli possono avere un'autonomia media fino a circa 300 km dopo una carica di 8 ore, mentre le auto con motore termico tradizionale sono in grado di coprire la stessa distanza, se non di più, dopo solo un minuto di rifornimento. Ciò dipende da come la carica elettrica viene immagazzinata nelle batterie convenzionali, in special modo quelle agli ioni di litio, le più diffuse in questo settore. Nel contempo la progettazione dei veicoli elettrici è maturata abbastanza, non ci sono ad oggi grossi impedimenti in quanto ad elettronica e meccanica, dunque il collo di bottiglia di questi prodotti è rappresentato proprio dalla chimica delle batterie. Il passaggio a sistemi di stoccaggio di energia elettrica più efficienti e a basso costo non è proprio a portata di mano.

Un certo numero di startup sono però vicine alla realizzazione di dispositivi pronti ad immagazzinare energia ad un costo inferiore a 100 dollari per chilowattora. Si avrebbe così il vantaggio di poter ricaricare direttamente con le fonti rinnovabili, cosa fin'ora non sempre possibile, dato che la convenienza si abbassa drasticamente in assenza di sole e vento. Ma queste batterie non vengono ancora commercializzate con i numeri necessari per accelerare il passaggio dai combustibili fossili alle rinnovabili nel processo di ricarica. Alla stessa Tesla, leader tra i costruttori di veicoli elettrici di lusso, nonostante abbiano a listino auto con più di 500 km di autonomia, hanno affermato che le loro principali ricerche vertono proprio sul miglioramento delle attuali batterie agli ioni di litio. E ciò è tutto dire.

Il processo decennale di sviluppo di nuovi dispositivi di immagazzinamento ha messo in evidenza uno dei principali ostacoli nel progresso delle batterie: quando si migliora un aspetto, si rischia di  comprometterne altri. A questo si aggiunga il fatto che la ricerca ha un problema di sovrabbondanza: ci sono così tante tecnologie che nessuno sta primeggiando sugli altri in modo da attirare la maggior parte dei progetti. Insomma, non si fa rete. Ogni tanto sembra spuntare un'idea che promette rivoluzioni. L'ultima viene dagli ingegneri della Ohio State University, che hanno utilizzato una membrana di plastica sottile per bloccare il fisiologico processo di scarica delle batterie, anche a veicolo fermo, permettendo al contempo una rapida ricarica. E' una tecnologia ispirata al modo in cui le membrane cellulari consento il trasporto di proteine all'interno del nostro corpo. Tale applicazione potrebbe accoppiarsi ad un nuovo tipo di batteria, nella quale il liquido elettrolita si può ricaricare o svuotare, alla stessa strega di un carburante nel suo serbatoio. Così, per gli spostamenti quotidiani l'elettrolita può essere semplicemente rigenerato inserendo la spina in una presa di corrente, ad esempio di notte; invece, per i viaggi a lungo chilometraggio, si può svuotare l'elettrolita utilizzato e ricaricare la batteria versandone una identica quantità, ciò che già facciamo con benzina e gasolio nei motori termici.

Altro aspetto da non sottovalutare è quello dei costi di produzione. E' stato stimata intorno a 500 milioni di dollari la spesa per realizzare una piccola linea produttiva e poter fare tutte le ricerche in dettaglio, al fine di portare il prodotto ad una economia di scala. Tesla, per fare in grande, spenderà invece 5 miliardi. In generale, però, diversi produttori di auto "pulite" arrivano a testare i nuovi sistemi di batterie per alcuni anni prima di sposare una certa tecnologia. E, tra la paura di sbagliare perdendo l'investimento e gli scarsi finanziamenti al riguardo, si procede molto a rilento. Per non parlare di chi invece progetta e costruisce le batterie stesse: nonostante molti scienziati affermino la necessità di rifondare la chimica di base di questi prodotti, colossi come Samsung, LG e Panasonic continuano a migliorare le attuali batterie al litio. Tutta una serie di ostacoli che, sommati al mancato decollo delle infrastrutture e alla bassa mentalità green degli acquirenti, frenano la diffusione di mezzi di trasporto meno inquinanti.




martedì 30 agosto 2016

Prevedere le cadute nella terza età


Avete mai visto quelle pubblicità televisive che mostrano ausili per gli anziani, tipo poltroncine che si sollevano per chi fatica ad alzarsi, oppure comode vasche da bagno con sportello per uscire più facilmente ? Al di là del prezzo-fregatura o della reale funzionalità quando poi verranno usate, è apprezzabile che si sviluppino questi sistemi per migliorare la qualità della terza età. A volte ci si trova a combattere con eventi sventurati come una caduta, la cui riabilitazione in quella fase della vita non è semplice. E se fosse possibile prevedere l'inciampo, il ruzzolone, una dolorosa storta, tutte probabili cause di traumi anche seri ? Ci sta lavorando un team composto da ricercatori della Scuola di Infermieristica Sinclair e del College of Engineering, entrambi presso l'Università del Missouri.

Per prevedere le cadute, i ricercatori hanno utilizzato i dati raccolti da molteplici sensori installati all'interno di TigerPlace, un residence per anziani, costruito con criteri innovativi, che si trova nella città di Columbia. Si tratta di un software che analizza delle immagini generando un alert tramite mail agli infermieri, quando c'è stato un movimento irregolare di un degente, o comunque una differenza significativa rispetto al suo solito modo di spostarsi. Oltre all'aspetto prettamente di emergenza, può far comprendere cosa sta portando l'anziano a peggiorare il suo moto: queste informazioni costituiscono un database significativo nelle valutazioni del declino fisico e funzionale, ai fini preventivi.

Le immagini sono ottenute attraverso degli speciali sensori, con i quali è possibile misurare velocità, andatura e lunghezza del passo. Dallo studio fatto i cambiamenti registrati sono utili a prevedere una possibile caduta nel giro di tre settimane, dunque si ha il tempo utile per capire le cause e prendere le adeguate contromisure. Per venire ai numeri, considerando una velocità media per un anziano, senza grossi problemi di deambulazione, intorno al mezzo metro per secondo, si è rilevato che una diminuzione di velocità del 10 % corrisponde ad una probabilità superiore all'80 % che avvenga una caduta nei 21 giorni successivi. In generale, mostrare un rallentamento nella propria andatura solita, secondo i ricercatori, corrisponde ad un incremento del 50% della probabilità di cadere entro le tre settimane a venire.

La ricerca è stata sostenuta dal National Institutes of Health, sito nello stato di New York. Tra i possibili sviluppi ci sono certamente quello di semplificare il sistema, in modo che gli anziani possano installarlo a casa propria, collegandolo ad un centro medico. Comunque il quadro tracciato dal direttore del Center for Eldercare and Rehabilitation Technology è chiaro: "Le valutazioni ottenute attraverso l'uso della tecnologia dei sensori sta migliorando in modo significativo l'assistenza sanitaria coordinata agli anziani". Nel centro TigerPlace, dove ai sistemi di controllo e prevenzione di ultima generazione si affianca un'assistenza umana di primo livello, i residenti sono in grado di vivere in modo indipendente per circa quattro anni, rispetto alla media nazionale statunitense di 22 mesi.

Se non fosse ancora chiaro il concetto, la prevenzione è un tema scottante e da affrontare a spron battuto, sia nel caso della salute, che in molti altri settori. Il sisma di Amatrice è un drammatico caso eclatante. Ma a differenza dell'edilizia, che dipende spesso da volontà a noi superiori, per gli anziani è anche questione di mentalità. Il non avere obiettivi a breve termine può portare a sragionare circa la propria sicurezza. Fortunatamente la ricerca continua a sviluppare e proporre sistemi previsionali come questo dell'Università del Missouri, al fine di vivere l'età d'argento senza dipendere troppo dagli altri.



(fonte http://www.eurekalert.org/pub_releases/2016-08/uom-ssi082616.php; si ringrazia il sito http://www.media-partners.com/ per la gentile concessione della foto)