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giovedì 30 giugno 2016

La selezione innaturale


Siamo nell'era dell'antropocene, su questo ci troviamo (quasi) tutti d'accordo. Il condizionamento dell'animale uomo sul pianeta è diventato significativo da troppo tempo, quello che ci manca è la sensibilità al problema. Polemiche a parte, oltre agli effetti arcinoti e a quelli stimati dagli scienziati per il futuro, ora un nuovo studio ne ha scovati degli altri. Pare infatti che stiamo determinando accelerazione o decelerazione nell'evoluzione di alcune specie di esseri viventi, enfatizzando quella che si chiama speciazione artificiale.

Condotto in collaborazione tra l'università di Copenaghen e quella del Queensland, lo studio mette in evidenza come le attività umane influenzino le evoluzioni ed involuzioni delle specie, affermando che le nuove formatesi non possono banalmente sostituire quelle selvatiche estinte. La biodiversità ha bisogno di suoi ritmi, molto lunghi, per far eventualmente trasmutare una specie in un'altra, senza alcuna forzatura esterna. I meccanismi per cui ciò accade sono molteplici: si va da alcune introduzioni accidentali, passando per l'addomesticamento degli animali, arrivando ad una selezione innaturale a causa della caccia; oppure avviene per la comparsa di nuovi ecosistemi, su tutti l'ambiente urbano e quello industriale. Anche alcune colture sono soggette a cambiamenti rapidi per via dell'eccessiva antropizzazione: si stima che 6 delle 40 colture agricole più importanti al mondo siano relativamente moderne.

La conservazione della natura rimane quindi una problematica urgente. Anche volendo guardare al numero totale di specie, il parametro rischia di non essere una misura accurata e soddisfacente rispetto ai principi di conservazione, dato che non riflette tutti gli aspetti essenziali della biodiversità. Il bilancio, anche se numericamente pari, non può non tenere conto del diverso peso associabile alla fauna che vive allo stato brado rispetto a quelle specie che vivono in città, quasi in simbiosi con l'uomo. In ogni caso, gli effetti della speciazione forzata, volendo guardare il bicchiere mezzo pieno, potrebbero essere utili per comprendere più a fondo il nostro impatto sulla biodiversità globale, al fine di minimizzarlo.

Un esempio lampante portato dagli scienziati è quello della zanzara comune che, a Londra, si è adattata così bene all'habitat presente sotto la metropolitana, creando una vera e propria popolazione a sè stante. Ebbene, alcuni esperimenti hanno provato che questo nuovo insetto non riesce più ad accoppiarsi con le zanzare che vivono en plein air. Ancora, agli amanti della caccia si può dimostrare come portare al rischio di estinzione alcuni animali, o renderli più vigili nei confronti del loro "hobby", ha come conseguenza l'emergere di nuovi tratti, non certo benevoli, che si potranno col tempo trasferire in altri animali, sia intenzionalmente che per ibridazione con altre specie.

Se la speciazione naturale è un fenomeno che può durare millenni, dipendente da vari fattori, quali isolamento fisico o geografico, pressione selettiva o deriva genetica, la speciazione artificiale è determinata da mutamenti improvvisi, che avvengono quindi in periodi molto più brevi (uno o più decenni). E' il caso degli incroci di alcuni animali: i cani, per esempio, oppure di quelle razze addomesticate che lo stesso Darwin contestava. Ma nella nostra epoca non stiamo scegliendo di indirizzare delle specie su una via o su un'altra, non ne stiamo volontariamente selezionando alcune sacrificandone con criterio delle altre. Stiamo solo lasciando che l'attività umana, in tutte le sue forme, condizioni, in base ai nostri bisogni e piaceri, degli esseri viventi a seguire una evoluzione che non è più naturale, pur se confinata a pochi esemplari. Un motivo in più per fare un grande passo indietro.




giovedì 23 giugno 2016

I supercomputer e i cinesi


Quando inventeranno i computer intelligenti il genere umano sarà a rischio ? Dipende da quanto saremo bravi a tenerci aperta la possibilità di spegnerli. Oppure, al contrario, da quanto riusciremo a farli davvero intelligenti, al punto che loro stessi potrebbero privarsi di quella possibilità. Al momento però una delle caratteristiche più importanti di queste macchine è la velocità: avrete sicuramente detto, davanti ad una risposta non proprio fulminea del vostro pc "mi ci vorrebbe un computer più veloce !". Ciò non accade ai progettisti cinesi di Sunway TaihuLight, il supercomputer più veloce al mondo, come risulta dalla recente graduatoria TOP500, stilata da esperti del settore con cadenza semestrale, da più di 20 anni.

La velocità dei calcolatori si misura con i FLOPS (FLoating point Operations Per Second, letteralmente operazioni in virgola mobile al secondo). Il Sunway TaihuLight è un sistema costruito interamente utilizzando dei processori progettati e realizzati in Cina: riesce ad eseguire 93 petaflops al secondo, dove peta è il prefisso corrispondente, per i più ferrati in matematica, a 10 elevato alla 15, cioè un 1 seguito da 15 zeri. In altre parole, un hardware in grado di fare 93 milioni di miliardi di calcoli elementari in un solo secondo, usando un particolare software come banco di prova. Sviluppato dal cinese National Research Center of Parallel Computer Engineering & Technology (NRCPC), TaihuLight è installato presso il centro nazionale di supercalcolatori sito nella città di Wuxi.

Ha superato un concorrente della stessa nazione del dragone, che faceva "solo" 34 petaflops al secondo. Si tratta comunque di una macchina che non assomiglia per niente a quelle con cui state leggendo ora, dato che contiene più di 10 milioni di processori, mentre i computer comuni ne contengono 2, 4 o 8, eseguendo al limite qualche decina di gigaflops (giga sta per 1 miliardo). Il consumo di potenza massimo sotto carico, durante i test che ne misurano appunto la massima velocità, è risultato di 15 MegaWatt, praticamente quella erogata da una piccola centrale idroelettrica. A cosa servono queste mostruose velocità e il relativo dispendio di energia ? Se guardiamo ai primissimi posti della classifica si tratta di puri prodotti della ricerca, che però col tempo potrebbero portare a sviluppi su calcolatori più "normali", passando magari per quelli usati dalla NASA o da grossi enti di ricerca (il CERN, per fare un nome), dove la potenza di calcolo è utile nei computi astronomici e nelle elaborazioni scientifiche, quindi per studiare infiniti ed infinitesimi. Nonostante certe graduatorie lascino il tempo che trovano, si evince però che i progettisti cinesi in certi ambiti sono diventati davvero bravi. E qui vorrei fare una digressione al riguardo, me la concederete.

In un recente seminario indetto dall'ordine professionale a cui appartengo, un tale andava affermando che il valore aggiunto dell'innovazione si ha nel passaggio "da 0 a 1", ossia nel salto che viene dal progresso verticale ed intensivo, contrapposto alla globalizzazione di chi, copiando, lascia lo stato dell'arte inalterato e va "da 1 a N", portando un solo passaggio orizzontale. Chiaro il riferimento alla Cina. Di questo paese si può dire e si è detto di tutto, non lo ripeterò. Voglio però sottolineare che senza le produzioni dei maggiori innovatori fatte in quei territori, avere un prodotto su larga scala alla portata economica di tutti non sarebbe stato possibile. Una tecnologia che non permea la società non porta innovazione, nè sociale nè culturale. Lo diceva anche Henry Ford circa un secolo fa “C’è un vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano tali per tutti”. Sta poi ai nostri governanti mettere dei paletti perché la concorrenza globale resti leale. A molti è convenuto andare a produrre in Cina, anche sfruttando: lampante fu il caso di Apple e della Foxconn. Fossero stati dei robot, non mi sarei aspettato più di tanto. Ora invece, almeno quanto a supercomputer, non li batte nessuno.



martedì 14 giugno 2016

Adeguati confini alle mutazioni genetiche


La storia del cinema è piena di tentativi fantascientifici, più o meno riusciti, di mostrare cosa potrebbe accadere se da un laboratorio fuoriuscisse un virus potenzialmente pericoloso per la vita. E se ne perdesse il controllo. Molto spesso i produttori hanno badato agli effetti speciali trattando poco realisticamente il tema. Ma ora che le modifiche genetiche hanno raggiunto livelli impensabili fino a pochi anni fa, la realtà rischia di avvicinarsi alle pellicole della fantasia. Proprio per questo la soglia di attenzione deve essere sempre molto alta. E' quello che affermano alcuni studiosi della US National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine, con sede generale a Washington, in un rapporto pubblicato la settimana scorsa. Una rapida diffusione delle mutazioni genetiche potrebbe sottoporci a rischi ecologici, è quindi consigliabile molta cautela nella relativa sperimentazione.

Lo studio dei geni, non solo quelli umani, va avanti da circa mezzo secolo, inizialmente avviato anche per combattere in modo efficace alcune malattie trasmesse dagli insetti, come la malaria. Ad oggi molti problemi tecnici di un tempo sono solo un ricordo, avendo raggiunto una sofisticazione molto spinta. Negli ultimi due anni, i ricercatori hanno usato una tecnica di gene-editing (modifica dei geni) chiamato CRISPR-Cas9 , una evoluzione del "semplice" CRISPR, sequenza particolare di geni scoperta tra gli anni '80 e '90, molto usata nell'ingegneria genetica per la sua sistematicità.

La nuova tecnica permette di diffondere un dato gene attraverso una popolazione di esseri viventi in modo quasi esponenziale, più rapidamente di come avviene nei lieviti, nei moscerini della frutta e in alcune specie di zanzare. E' proprio questa estrema velocità a preoccupare gli scienziati della pubblicazione, dato che non si è ancora riusciti a comprendere a fondo le loro conseguenze ecologiche. Infatti, un portatore di geni modificati potrebbe avere effetti indesiderati sull'ambiente, se si scatena in zone selvatiche e scarsamente abitate: la rimozione di una specie di insetti, per esempio, potrebbe mettere in pericolo gli animali che si nutrono proprio di quella specie.

Nonostante il potenziale delle unità geniche sia veramente elevato e siano quindi scientificamente giustificabili gli studi in laboratorio, la supervisione su progetti di trasmissione di geni dovrebbe essere coordinata tra vari paesi, afferma il rapporto, condividendo le migliori pratiche in modo open fra i team di ricerca. A tal proposito, gli autori hanno dettagliato più fasi di test che da utilizzare per valutare gli effetti delle moltiplicazioni genetiche ed hanno sottolineato l'importanza della sovrapposizione di più metodi di contenimento, al fine impedire il rilascio accidentale delle nuove specie. Ma, nondimeno, hanno auspicato la necessità di coinvolgere anche il pubblico nel processo decisionale, ancor prima che si inizino gli esperimenti di trasmissione dei geni. Importante quindi la sensibilizzazione a livello dei singoli ricercatori.

Quanto a questi ultimi, la prassi non li ha mai dotati di strumenti per ricevere feedback sul loro lavoro da parte della gente comune. Si tratta quindi di modificare quella pseudo-cultura scientifica che spesso scoraggia i ricercatori a condividere le loro esperienze prima della pubblicazione, per paura di essere superati da un altro gruppo che si impadronisca dei risultati. Tutta la ricerca, nella maggior parte dei campi, ha fatto progressi da gigante ma, tranne rare occasioni, quasi mai nessuno si è preoccupato dell'inevitabile rapporto tra gli scienziati, che lottano quotidianamente per raggiungere un risultato,  e chi ne "subirà" i benefici in futuro.




martedì 7 giugno 2016

La necessaria commistione tra città e natura


La nascita delle città come agglomerati organizzati di persone, abitazioni, infrastrutture e servizi risale solo agli ultimi due secoli. Lo spostamento dalle campagne che da noi si è avuto in buona parte dagli anni '60 in poi, assieme ai grandi flussi migratori, ha concentrato l'attenzione sociale e politica soprattutto verso questi insediamenti umani. In altre parti del mondo era successo prima, in altre ancora è più recente o sta avvenendo oggi. Alcune stime dicono che in un futuro prossimo circa il 70% della popolazione mondiale risiederà nelle medie-grandi città: è anche per questo che la tecnologia si sta ipersviluppando verso nuovi paradigmi, uno su tutti quello della smart city. Ci stiamo dimenticando qualcosa ?

Pochi giorni fa su Science è stato pubblicato un articolo che fa molto riflettere al riguardo. E' stato scritto a più mani da ricercatori della Università di Washington, secondo i quali le aree urbane, al di là del loro ruolo necessario, comportano un indebolimento del rapporto tra uomo e natura, causandone una sorta di disconnessione. Non solo, favoriscono anche delle tensioni emotive che contribuiscono ad aumentare malattie mentali e disturbi dell'umore, legate proprio allo scarsissimo accesso alla natura.

Forse ricorderete un'intervista fatta ad alcuni bambini nostrani tempo fa, ai quali si chiedeva quante zampe avesse un gallina, portando l'esempio del pollo come animale gastronomico più vicino alla loro realtà. La risposta di alcuni fu "otto", semplicemente perché nella confezione famiglia portata a casa vi erano altrettante cosce che, ad un occhio profano come il loro, dava l'idea di un animale unico con quel numero di zampe. A questo si può aggiungere, senza tema di smentita, che molti a quell'età una moltitudine di stelle l'hanno vista solo nei film a cartoni, oppure sul web. Il professor Kahn, che ha guidato lo studio, ha definito questo vuoto "amnesia generazionale ambientale", ossia quella ridotta facoltà delle nuove leve di correlarsi con la natura, anche selvaggia, e di riuscire a derivare un senso comune rispetto alla specie cui apparteniamo.

Ma il problema non investe solo la fascia sociale dei minori. Anche la maggior parte degli adulti, abituati ormai a dare per scontata la dimensione vitale tra cemento e traffico, basano la propria esperienza su canoni molto distanti da quelli ambientali. E' forse questo il motivo, temono i ricercatori, della scarsa sensibilità delle persone alle nefaste variazioni planetarie e alle nostre dirette responsabilità. Non si sente l'urgenza perché la si vive come qualcosa fuori dai propri orizzonti. Sarà banale, ma non c'è niente di naturale in una metropoli, o in città di dimensioni ancora superiori.

Bisogna spingere sulle possibilità concrete di vivere in maniera sicura, anche dal punto di vista della salute, nelle città del futuro. L'ideale sarebbe coniugare in modo intelligente i vantaggi sociali degli insediamenti urbani con un minimo e costante accesso ad aree verdi ed in qualche modo staccate dagli stress a cui siamo sottoposti. Se così non fosse, la progettazione dovrebbe prevedere zone promiscue, con residenze e uffici a stretto contatto con giardini pensili ed orti urbani; finestre vere con la possibilità di essere aperte per il ricambio d'aria, senza attivare alcun dispositivo artificiale; tetti e pareti verdi dove possibile; poter fare una pausa respirando per un momento aria pura, sentire gli odori della campagna, anche se questa non è proprio a due passi da noi. Tutto ciò passa attraverso nuove logistiche e nuovi approcci, soprattutto mentali da parte di tutti, nel capire i benefici fisici e psicologici di tali interazioni, in una osmosi totale con il mondo naturale. 

Non può esistere una città a misura d'uomo che non sia contaminata, nel vero senso della parola, dai doni offerti dalla natura, conclude lo studio pubblicato su Science. Deve essere un coinvolgimento continuo tra l'energia dell'area urbana ed il benessere armonico e stimolante che possono dare le specie vegetali con il proprio humus. La loro funzione psicologica va rivista e fortemente riproposta, per preservare al meglio l'integrità degli ecosistemi ma anche la salute pubblica. Se la natura è la fonte della nostra esistenza, non possiamo scordarcene proprio dove siamo più presenti.