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martedì 30 giugno 2015

Gli hashtag, una miniera anche per gli studi clinici


I social networks sono forse una delle rivoluzioni culturali più importanti degli ultimi decenni. Importanti non per la qualità delle cultura che se ne può discernere ma per l’impatto sociale che hanno portato. Certo, ci sono i detrattori che sottolineano come col tempo avremo sempre più la testa in avanti e problemi al collo perché guardiamo troppo il nostro smartphone, per non dire del tempo sottratto alle relazioni umane reali. Ed in parte è vero. Ma i social a volte nascondono delle sorprese positive. Se ne sono accorti i ricercatori dell’Università del Vermont, scoprendo grazie a Twitter ed ai suoi hashtag una nuova tecnica per captare interazioni farmacologiche potenzialmente pericolose e sconosciuti effetti collaterali.

L'obiettivo generale del progetto, sostenuto dalla National Science Foundation, era quello di scoprire una relazione tra due farmaci ancora non individuata. Poiché studi precedenti avevano dimostrato che da Twitter si possono estrapolare alcuni spunti farmacologici, gli scienziati del Vermont si sono spinti oltre, focalizzando la loro attenzione su alcuni hashtag che richiamano problemi di salute, per trovare nuove associazioni. Hanno paragonato gli hashtag addirittura ai neuroni, per la loro capacità di inviare un segnale specifico e realizzare delle sinapsi multiple che possono rivelare un percorso sorprendente tra due o più farmaci. L’algoritmo messo a punto permette di collegare gli hashtag ad altre parole chiavi, costruendo una fitta mappa dalla quale, dopo gli opportuni filtraggi, si può giungere ai percorsi più brevi che connettono due farmaci. In sostanza, senza conoscere i meccanismi su cui si basa l’interazione, scandagliare i tweet permette almeno di intercettarla.

Ad esempio dall’hashtag #happythanksgiving l’algoritmo ha confermato un percorso tra l'aspirina e l’antistaminico Benadryl, noti in medicina per i loro effetti combinati disturbanti. Ma ancora più sorprendente è stata l’interazione, del tutto inesistente sui database medici, tra il principio attivo Ibuprofene (alla base di molti analgesici ed antiinfiammatori) e la marijuana medica, oggettivata grazie all’hashtag #Alzheimer. Dopo il primo sconcerto degli scienziati è venuto fuori che alcuni “twitternauti” stavano condividendo i risultati di uno studio nuovissimo secondo cui l'Ibuprofene ha una certa capacità di bloccare o ridurre gli effetti dannosi sulla memoria di chi usa marijuana con frequenza, effetti inizialmente associati alla malattia di Alzheimer. Lo studio è apparso prima su Twitter e poco dopo è finito nel più grande database di pubblicazioni mediche PubMed, gestito dal National Center for Biotechnology Information, di proprietà USA.

A proposito di effetti collaterali, questo studio realizzato nel Vermont ne ha uno di grande importanza. Nel settore della ricerca medica alcuni lavori pubblicati sono troppo spesso slegati dalle nuove scoperte scientifiche, anche se realmente avrebbero un nesso, perché le biblioteche digitali hanno problemi di codifica e rintracciabilità. In queste mastodontiche aggregazione di dati, infatti, le parole chiave associate agli studi sono inserite manualmente, con tutto ciò che questo comporta in termini di tempi e di probabili errori. Quindi, con il nuovo algoritmo potrebbe essere possibile interconnettere le informazioni cliniche in modo più puntuale.

Tra le tante, tantissime chiacchiere di Twitter e dei mille altri social, scovare delle prove scientifiche emergenti o addirittura individuarne alcune ignote può essere una forma di rivalutazione di certi tool bistrattati, a torto o a ragione. In fondo si tratta di una quantità enorme di dati che, se ben sfruttati, costituiscono un importante supporto in moltissimi settori: per chi fa marketing, per esempio, si tratta del pane quotidiano. In altre parole, una forma di intelligenza connettiva e collettiva che può avere davvero una gran forza. Basta non dimenticare però di fare le dovute verifiche.


(fonte http://www.eurekalert.org/pub_releases/2015-06/uov-nrf062915.php; si ringrazia il sito http://www.kevinmd.com per la gentile concessione della foto)

lunedì 22 giugno 2015

Nano reticoli per la bioingegneria neurale


Nonostante gli sforzi della medicina e di tutta la scienza, non siamo ancora riusciti a creare una macchina davvero vicina al corpo umano. Ciò vale non solo per l’intelligenza disseminata dalla testa in giù, ma anche per la potenzialità di auto-riparazione che possediamo nella maggior parte dei casi. Ma, si sa, non essendo la perfezione di questo mondo, quella potenzialità a volte non è sufficiente. Questo è un problema specie se il difetto (congenito e in itinere) riguarda la nostra materia grigia. Diversi i tentativi per impiantare nella scatola cranica dispositivi che supportino la parte neurale danneggiata. Uno degli ultimi sembra promettere molto bene.

All’università di Harvard, nel centro di chimica e biologia chimica, i ricercatori hanno dimostrato che un nuovo tipo di dispositivo elettronico flessibile, che può essere inserito mediante una iniezione, potrebbe essere un'alternativa meno invasiva rispetto alle soluzioni tradizionali realizzate nella testa con elettrodi rigidi. Per i sistemi esistenti, infatti, esiste una sorta di disallineamento con i tessuti riceventi che comporta diversi danni e risposta immunitarie non positive. Inoltre, quando l’inserimento va a buon fine, la capacità di registrare o stimolare l'area di interesse non ha una durata importante. La nuova struttura reticolare progettata è molto più simile al tessuto biologico con cui deve integrarsi ed evitare pericolosi rigetti; possiede inoltre caratteristiche di flessibilità mai viste fin’ora nei dispositivi cerebrali impiantabili.

Il progetto rientra in quella che si definisce ingegneria biologica tissutale, con cui si identificano procedure di rigenerazione di tessuti del corpo umano mediante nuove cellule su strutture predisposte a riceverle, all’interno delle quali si ha la produzione di tessuto. Gli scienziati statunitensi sono riusciti ad alloggiare all’interno della struttura, fatta di sottilissimi fili metallici e polimerici, dei sensori elettronici per misurazioni sulle cellule. Le prime prove sono state fatte iniettando queste speciali nano-maglie in aree mirate nel cervello di topi vivi, rilevando successivamente la capacità di registrare i segnali da esse provenienti, grazie ad un filo collegato alla maglia che però rimane all'esterno del corpo. Un dispositivo del genere di circa un centimetro e mezzo si può piegare e ridurre fino a poche centinaia di micrometri, iniettandolo attraverso un ago speciale. Una volta all'interno, tende a conformarsi all’ “ambiente” tridimensionale in cui si trova. Nel corso del tempo, i neuroni si integrano con la rete, offrendo l'opportunità di registrare o stimolare singole cellule in una data regione, anche per diversi mesi.

Tale tecnologia potrebbe fornire preziose informazioni sull'attività elettrica di alcuni circuiti neurali per certe funzioni ancora non del tutto chiare, come i ricordi a lungo termine. Si potrebbe anche far luce sulle disfunzioni del cervello, come la schizofrenia o il morbo di Parkinson. In generale potrebbe portare a nuovi stimoli terapeutici per affrontare malattie neurodegenerative o realizzare futuristiche interfaccia cervello-computer, che possono aiutare le persone disabili a riacquistare, almeno parzialmente, una propria indipendenza.

Gli animalisti protesteranno, a torto o a ragione, ma per far progredire questa tecnica ad alto tasso innovativo gli esperimenti ad Harvard dureranno ancora da sei mesi a un anno nei topi; poi si dovrebbe passare a primati e, infine, dopo una serie di test molto rigorosi, alla sperimentazione umana. Se dovesse funzionare davvero, visti i grossi benefici attesi, non crediamo ci sia altra via, e lo diciamo a malincuore, che quella di sacrificare innocenti creature.



venerdì 12 giugno 2015

Climate change, quanto vale la cultura della conoscenza


E’ noto che quando una notizia si basa solo su statistiche l’uomo della strada tende a non dargli molto peso. Se la cronaca riporta un evento, piacevole o meno, lo prendiamo per buono ed eventualmente ci comportiamo di conseguenza. Quando invece mancano le certezze, siamo talvolta portati a sottovalutare i numeri, i grafici, i trend, specie se provenienti da indagini sommarie. La statistica costruisce un’ipotesi ma non è realtà acclarata. Però, nel caso dei cambiamenti climatici derivanti dall’antropocene, una realtà c’è, e non è affatto positiva. Così all’università di Plymouth (Regno Unito) hanno condotto un sondaggio che dà importanti indicazioni su come molte persone non seguano le statistiche sui disastri ambientali, ricavandone un quadro sull’importanza di aumentare la conoscenza e la comprensione sulle questioni energetiche.

Nonostante l'energia sia un fattore trasversale a tutti gli aspetti della vita contemporanea e, pur essendo il risparmio energetico una risposta cruciale al cambiamento climatico, lo studio ha evidenziato che le iniziative al riguardo in materia di istruzione e vita pubblica, ossia di alfabetizzazione energetica tra i cittadini, sono piuttosto frammentarie e disorganizzate. C’è bisogno di una forte motivazione per cambiare i comportamenti, anche perché gli intervistati sono apparsi dubbiosi circa la loro capacità di influenzare imprese e politici su questioni di rilevanza ambientale. In sostanza si è osservato che se da un lato il 90% circa ha sentito parlare di queste problematiche, meno del 20% pensa che sia la questione nazionale (inglese) più importante da risolvere. Molti hanno detto di cercare di assumere comportamenti per il risparmio energetico, tipo spegnere le luci o disattivare apparati in standby, usare la bici per gli spostamenti brevi, ecc; oppure hanno provato a convincere amici e parenti di modificare i loro stili di vita in questo senso, non trovando però il giusto interesse da parte degli interlocutori. 

Un altro sondaggio è stato condotto negli USA, circa il tema delle smart cities, da parte degli autori della piattaforma Meeting of the minds, creata per diffondere conoscenza condivisa sulla sostenibilità urbana. Le smart cities rappresentano un modello sociale e culturale, oltre che tecnologico, delle città presenti e future: un ambito evidentemente legato alla perdita di “greenicità” sia delle stesse città che di tutto il pianeta. Ebbene, solo il 40% circa degli intervistati ha dichiarato di conoscere correttamente il significato di città intelligente. Gli americani, storicamente interessati al legame ricchezza-cultura, hanno individuato una tendenza secondo cui la consapevolezza sul tema cresce insieme al reddito di chi ha risposto. Nonostante ciò, a conferma che i soldi non sempre corrispondono a menti attente e sensibili, quasi tutti hanno legato il concetto di smartness ai soli dispositivi tecnologici e non alle potenzialità del crowdsourcing, quell’intelligenza collettiva che deve essere abilitata dalla tecnologia e allo stesso tempo guidarla, senza subirla passivamente. 

Al di là dei numeri, ciò che risalta dai due studi è il valore della conoscenza come strumento per migliorare i  processi decisionali a tutti i livelli. Sono dunque necessari maggiori sforzi per collegare l'apprendimento formale con la vita quotidiana, per migliorare la consapevolezza delle buone pratiche e del loro stretto legame con il consumo energetico. Analogamente si può dire delle smart cities e degli smart citizens, i quali devono acquisire la consapevolezza e la responsabilità della nuova rivoluzione tecnologica urbana. Conoscere per agire in previsione futura, instaurare meccanismi di causa-effetto con la giusta cognizione del beneficio che ci autocostruiamo. Conosco, quindi sono. Anzi, siamo. Perché solo minimizzando certi individualismi e potenziando le azioni collettive si possono rallentare i nefasti cambiamenti ambientali, per provare a vincere le sfide della sostenibilità globale.



venerdì 5 giugno 2015

Un nuovo batterio per la produzione di biocarburanti


L’inquinamento delle nostre strade e delle nostre città dipende essenzialmente dai veicoli che le attraversano. E’ noto a tutti l’effetto deleterio per l’ambiente nel produrre energia meccanica con il ciclo Otto (mezzi a benzina) piuttosto che con il ciclo Diesel (mezzi a gasolio). Un decreto italiano di ottobre 2014 impone ai produttori di carburanti di usare almeno il 5% in peso di biocarburanti, di origine vegetale e rinnovabile, rispetto al restante 95% di origine fossile, con un piccolo, graduale aumento del 5% negli anni a venire. Ma il vero problema è come ricavare tali biocombustibili, sia dal punto di vista della materia prima usata, che da quello economico-produttivo. Di recente al centro scientifico di BioEnergie (BESC) del Tennessee hanno sviluppato un prodotto che potrebbe accelerare in modo significativo il loro sviluppo.

I principali biocombustibili sul mercato sono il biodiesel, ottenuto dagli oli vegetali di colza e girasole, con proprietà e prestazioni simili a quelle del gasolio, e il bioetanolo, prodotto per via fermentativa a partire da biomasse, tipo residui di coltivazioni agricole, forestali, ma anche da rifiuti urbani. Gli scienziati statunitensi si sono concentrati sul secondo: dalle loro parti il bioetanolo si ricava dagli scarti di lavorazione del mais, ma circa un terzo resta inutilizzato, nella forma di uno zucchero chiamato xilosio. Così hanno progettato un particolare lievito, denominato C5 Fuel™, in collaborazione con l’azienda Mascoma, che offre alte capacità di fermentazione per ottenere etanolo, stabilendo un nuovo rendimento di conversione degli zuccheri di biomassa fino al 97%. Il tutto con tempi di lavorazione di sole 48 ore, di gran lunga inferiore rispetto alle metodologie  esistenti.

Anche se la biomassa cellulosica della paglia di mais o di altri resti fibrosi è abbondante e a buon mercato, il problema era il rilascio di zuccheri per la conversione in etanolo: la soluzione con il nuovo lievito si è rivelata molto efficace nella conversione dello xilosio. Se da un lato i tecnici del BESC sono riusciti a mettere a punto il batterio giusto per la trasformazione, dall’altro l’esperienza della Mascoma ha giocato un ruolo cruciale per portare i risultati della ricerca di base verso un prodotto commerciale. Si tratta di un importante e lungo cammino verso la riduzione del costo del bioetanolo e verso l’incremento del numero di impianti produttivi dello stesso: un esempio lampante di come la partnership con l'industria può favorire ed amplificare la capacità di ricerca fino a giungere ad efficaci prodotti in economia di scala.

La trasversalità delle fonti rinnovabili impatta fortunatamente anche sul settore trasporti. Quando si parla di efficienza energetica e di energia pulita il pensiero va spesso al modo di produrre elettricità. E’ impensabile però generare un’energia green da usare nelle mura domestiche (o nelle fabbriche) quando poi aprendo le finestre l’aria che si respira in città non è affatto salubre. Il global warming va fermato, questo è indubbio, anche abbattendo gli scarichi nocivi di auto, bus, camion e di ogni mezzo alimentato a carburante fossile. Come ? ad esempio incentivando l’utilizzo della mobilità pubblica, che funzioni sempre meglio in intermodalità e che faccia usa di veicoli a basso impatto ambientale (a metano o meglio ancora elettrico, giusto per dare una risposta semplice ma convincente). Ma la partnership tra la Mascoma e il centro BESC va vista come una buona pratica, sia per i risultati ottenuti, sia per come istituzioni, aziende e politiche oculate possono essere la sinergia vincente per un futuro dall’aria più limpida e dalla salute più sicura.


(fonte http://www.eurekalert.org/pub_releases/2015-06/drnl-bmd060315.php ; si ringrazia il sito http://www.caradvice.com.au per la gentile concessione della foto)